Parole che tornano bellicose
di Iole Scamuzzi
Luis Landero
Pioggia sottile
ed. orig. 2019, trad. dallo spagnolo di Giulia Zavagna,
pp. 238, € 18,50,
Fazi, Roma 2023
Luis Landero penso stia al panorama letterario contemporaneo della Spagna come Michele Mari a quello dell’Italia. Prosatore, professore, poeta laureato, gioca con Cervantes e Machado come Mari con Gadda e Leopardi. Consapevoli, talvolta perfino compiaciuti, compilano la mitografia di sé stessi e del loro mondo con i nobili echi della tradizione letteraria. Da Cervantes, Landero prende anche il fraseggiare, espressioni di passaggio, e il tono sornione con cui narra i drammi di personaggi che non sospettano la propria vocazione universale. Romanzi come Hoy Júpiter (2007), El balcón de invierno (2014), e lo splendido Caballeros de Fortuna (1994) – che dipinge una Castiglia primitiva e dura dove si infrangono i sogni buonselvaggisti di un intellettuale autocentrato e anaffettivo – si affiancano facilmente alle narrazioni di Mari dedicate all’infanzia, come Leggenda privata (Einaudi, 2017) e Tu, sanguinosa infanzia (Mondadori, 1997), o di ampio respiro romanzesco, come Roderick Duddle (Einaudi, 2014). La vena autobiografica dei due scrittori trasforma le vicende dell’io narrante in mito, che racchiude in sé uno spirito nazionale o ancora un umano universalmente disponibile. Ciò avviene mediante l’uso della prosa poetica, dell’ambientazione accurata in un tempo non precisamente determinabile del passato, e di luoghi e personaggi ben individuati ma anche archetipici, come il padre, duro ma degno d’ammirazione, la vecchia contadina, saggia ma analfabeta, il giovane intellettuale in erba, il ragazzo che intuisce i piaceri del corpo, la madre fragile e amorosa.
Il lettore italiano non può (ancora) percepire l’affinità dei due scrittori perché Landero ha avuto accesso al nostro mercato mediante due soli titoli, fra gli ultimi usciti in Spagna, che si allontanano dalla linea autobiografica menzionata: si tratta di La vita negoziabile, uscito nel 2018 per Mondadori in una traduzione migliorabile, e Pioggia sottile, appena pubblicato da Fazi nell’eccellente versione di Giulia Zavagna. Nondimeno, la riflessione su come il racconto di sé arriva a coincidere con l’identità attraversa questi romanzi tanto quanto quelli autobiografici. Pioggia sottile si colloca nel genere del dramma famigliare e affronta il tema, ormai portante nella letteratura contemporanea, dei maltrattamenti e degli abusi domestici. Lungi dal porsi come sterile denuncia o compiaciuta descrizione del male, si concentra sul momento in cui l’abuso, entrato a far parte della vita di ciascuno, si cristallizza come racconto e vive nella narrazione di sé di esseri umani mediamente funzionali. “È come se avessimo piccole ferite che non finiscono mai di rimarginare del tutto” e da quelle ferite, invece che sangue, sgorgano parole. Queste parole, pronunciate dalle donne della famiglia protagonista, non sono innocenti: “Le storie o le parole riemerse dagli oscuri anfratti della memoria tornano con intenzioni bellicose, cariche di rimostranze, bramando rivendicazione e discordia”. Il punto di incontro di tutti questi racconti è Aurora, moglie di Gabriel, il figlio silenzioso e apparentemente sereno. Il carattere dolce di Aurora, accogliente e bisognosa di affetto, la rende adatta a ricevere storie, ma incapace di produrne di proprie. Ognuna di esse è una piccola mitografia, con al centro un trauma, che eleva ciascuna delle protagoniste a eroina tragica, a sopravvissuta, simbolo di sacrificio, dannazione o redenzione. Così Sonia, la sorella maggiore, parla di sé come la sposa bambina ceduta al pedofilo Horacio dalla madre per brama del suo denaro; questi, nel racconto della madre, è invece il salvatore della famiglia dopo la morte del padre; per Andrea, la sorella minore, Horacio è invece incarnazione dell’amore proibito, della felicità preclusa. Questa e altre narrazioni ascoltate da Aurora nel corso del romanzo si contraddicono, non raggiungono mai un punto di accordo; l’intero non è il vero. Anche Gabriel fallisce nella sua missione di sintesi, quando, da buon professore di filosofia, cerca di portare tutta la famiglia intorno alla stessa tavola per gli ottant’anni della madre. Questo peccato di hybris dell’uomo, che si è sempre sottratto al confronto e che di colpo vuol farsi moralizzatore e paciere, fa esplodere le contraddizioni della famiglia e mette in marcia l’azione del romanzo, con i risultati che vedranno i lettori.
Nonostante la sua ricchezza, fermarsi al piano diegetico sarebbe limitante, per un autore come Landero. La sua prosa, come quella di Mari, non è infatti di immediato accesso: gran parte del piacere nella lettura di questo scrittore deriva dalla bellezza dello stile, dall’eleganza della lingua. Giulia Zavagna mostra grande competenza e sensibilità nell’affrontare la sintassi complessa e l’ampio lessico, spesso carico di echi letterari, che pervade quest’opera. In linea col romanzo postmoderno, Pioggia sottile è ricco di polifonia: vi convivono la forma saggio, la narrazione romanzesca, la prosa poetica, e in tutte queste occasioni la traduzione rende piena giustizia alla fonte, rispettandone registro, sfumature e ritmo. Si veda l’incipit del secondo capitolo. Siamo nella testa di Aurora, in una specie di indiretto libero di ispirazione anglosassone: “Si no se acuerda mal, los padres se casaron en 1966. Se llamaban Gabriel y Sonia. Hay una foto de la boda: el padre es menudo, calvo y risueño; la madre posa erguida, con la barbilla pujante, los labios apretados por obra de una voluntad férrea, y la mirada suspicaz”. Zavagna traduce: “Se non ricorda male, i genitori si erano sposati nel 1966. Si chiamavano Gabriel e Sonia. C’è una foto del matrimonio: il padre è minuto, calvo e sorridente; la madre posa ritta, con il mento sporgente, le labbra serrate per opera di una ferrea volontà, lo sguardo sospettoso”. È rispettata la secchezza delle frasi, coordinate per asindeto; il trapassato prossimo italiano rende con precisione l’anteriorità nel passato significata dal pretérito perfecto spagnolo; l’aggettivazione scarna e precisa rispetta l’ordine sostantivoaggettivo del testo fonte in ogni luogo possibile. Nei passaggi più lirici, si può notare il mantenimento dei suoni e dei ritmi: “En el hervidero de la memoria, hasta los episodios más triviales cobraban con los años la significación y la grandeza de una advertencia o de un designio, hasta acabar encajando en el entramado de un destino fatal”. Zavagna scrive: “nel formicaio della memoria, perfino gli episodi più triviali con gli anni assumevano la rilevanza e la grandezza di un’avvertenza o di un progetto, e finivano per combaciare nell’ordito di un destino fatale”. L’allitterazione enc-ent è sostituita con la ripetizione della z, che veicola la stessa durezza, mentre le t di “destino” e “fatal” sono mantenute. Si mantiene inoltre la struttura accentuativa dell’endecasillabo iniziale “en el hervidero de la memoria”. Non resta quindi che augurarsi che l’editoria italiana, con Fazi in testa, si faccia carico di introdurre Landero ai nostri lettori, possibilmente con la collaborazione di Giulia Zavagna. Il lavoro del traduttore, che tanto spesso è svolto da donne, è essenziale, pur nella sua relativa invisibilità. Come diceva Don Chisciotte, è inutile sapere che “arriba” significa “su” e “abajo” significa giù: non si produrrà che il rovescio dell’arazzo che si cercava di imitare. Tradurre è invece una necessità umana, universale quanto i messaggi che si traducono.
I colpevoli sono in famiglia
Intervista a Luis Landero di Camilla Valletti
La coralità dei personaggi del suo romanzo è espressa in un modo molto particolare: intorno al motore immobile, rappresentato da Aurora, vorticano le altre voci in un intrico che si fa sempre più fitto tanto da diventare irresolubile. Come è arrivato a individuare una simile strategia narrativa che quasi non ha precedenti?
Fin dall’inizio ho avuto chiaro che tutti gli episodi del romanzo dovevano essere narrati dal punto di vista di ogni personaggio. Non doveva esserci nessuna scena che non fosse sinfonica. E Aurora è proprio al centro di questo labirinto di prospettive. È lei la chiave della strategia narrativa. Tutto è ambiguo, tutto è poliedrico, non esiste una verità assoluta, ma ognuno ha la sua verità, il suo pezzo di realtà.
Ogni suo personaggio guarda al passato come una vera e propria rielaborazione della realtà e reclama la sua verità. Impone le sue ragioni a costo di macchiarsi di ogni nefandezza. L’unica che pare vivere nel presente è Aurora, questo non personaggio, che sembra fatto solo di ascolto e redenzione. Il passato, la memoria, come le storie che ne derivano sono sempre manipolate da chi le ha vissute. Aurora mantiene invece una forma di innocenza?
Aurora è una di quelle rare persone (tutti ne conosciamo qualcuna, nella vita reale) che sanno ascoltare, che capiscono e non giudicano. Sì, è innocente, nel senso che non è contaminata dalle passioni oscure, dal rancore e dal desiderio di vendetta degli altri. La sua è davvero una forma meravigliosa di innocenza. O di purezza spirituale.
“Non hai mai sentito le lacrime dei guerrieri sulla polvere” dice Andrea rivolta alla madre che non l’ha mai assecondata. Questo desiderio di lotta, di conquista e rivendicazione del dolore, connotano le due sorelle rivali mentre Gabriel, nel suo vizio di fondo, è un uomo che si porta dentro un mistero, un tarlo che consuma i suoi slanci, come l’assurda convinzione, da Rousseau fuori tempo, che si possa perseguire la felicità. La filosofia, in questa famiglia madrilena, è appannaggio dell’unico figlio maschio e sembra offrire sponde molto poco solide. Che rapporto esiste tra vita intima e la nostra formazione culturale? Andrea, Sonia, Horacio e anche Gabriel sembrano tutti affetti da una forma di autismo culturale ed emotivo, perché?
A una certa età, quando le illusioni giovanili e i progetti di vita non sono stati realizzati, compare talvolta lo spettro del fallimento esistenziale. C’è chi non si assume la responsabilità di questo fallimento, ma cerca dei colpevoli, e dove trovarli più facilmente se non in famiglia? Quanto a Gabriel, è un vero e proprio impostore. Ha trovato nella filosofia il pretesto per stare lontano da qualsiasi impegno: “non vale la pena farlo”. E sì, tutti i personaggi vivono assorti nel loro piccolo mondo, prigionieri delle loro convinzioni.
Dentro questo continuo alternarsi di versioni, rivelazioni, vendette e rivalse, lei trova il modo di frenare il ritmo con brevissime riflessioni che incalzano e strutturano le parti dialogate, quelle che possiamo definire “telefoniche”. Eppure, lei sostiene, “tutto quel che si dice resta per sempre e solo con la morte si consuma completamente l’oblio e si allarga il silenzio e la pace definitiva”. Come conciliare la volatilità di uno sfogo con il divorante desiderio di dire la verità?
Credo che ogni personaggio costruisca la propria verità, la racconti e la difenda. Nessuno di loro mente, nello stesso modo in cui chi crede sinceramente di essere stato rapito dagli alieni, sta raccontando la propria verità. D’altra parte, in un momento d’ira, a volte si dice ciò che si pensa e che è stato represso fino a quel momento. Ma io sono un narratore, non un filosofo o uno psicologo, e non sono la persona giusta per rispondere a queste domande.
Aurora sembra essere travolta dal carico delle attese che le arrivano dalla famiglia. Eppure la spinta verso il futuro, fosse anche uno schianto, non riesce a fermarla…
Forse in Aurora c’è qualcosa che ricorda Antigone. Niente può fermare Antigone nella sua marcia inesorabile verso un futuro che la distruggerà. Il suo è un imperativo categorico, e per questo è un personaggio tragico. Qualcosa di simile accade anche ad Aurora, anche se all’interno di una tragedia domestica. Ma nella realtà oggettiva non esistono destini predeterminati. E tuttavia gli esseri umani hanno dimostrato così tante volte la loro stupidità, che non ci sarebbe da sorprendersi se alla fine, tra tutti, scrivessimo una tragedia, dove interpretiamo il ruolo di Antigone o di Aurora.