Il fascino perverso delle demolizioni
di Cristina Bianchetti
Sarah Gainsforth
Abitare stanca
La casa: un racconto politico
pp. 290, € 18,
effequ, Firenze 2022
Attorno all’abitare, alle abitazioni e a chi le abita più o meno provvisoriamente o solo desidererebbe farlo, si sviluppa l’intreccio dei racconti che ci consegna Sarah Gainsforth. Racconti che in parte riguardano esperienze personali, di genitori, parenti, amici, ma anche esperienze indagate nei libri, negli incontri, nelle inchieste: le politiche americane della grande depressione; le rivolte, gli scontri, le occupazioni di terre e gli scioperi degli affitti nell’Inghilterra di fine Ottocento, i programmi di edilizia popolare nei primi del Novecento a Roma, e le politiche di cartolarizzazione di un secolo dopo. I grandi miti che hanno al centro la casa: primo tra tutti, forse, il “mito di Pruitt Igoe”, insediamento nei pressi di Saint Louis che avrebbe accolto la popolazione di colore secondo una propaganda veicolata da foto bellissime nelle quali i diritti, l’uguaglianza, le aspirazioni sono visibili negli spazi, nelle case e nei corpi dei primi abitanti. Insediamento velocemente degradato e demolito dopo pochi anni con un generale senso di sollievo. E molto altro. Vicende sempre attraversate da un filtro molto personale: un ricordo, uno sguardo che si avventura dentro una casa, una lettura, una conversazione.
Non è un libro orientato a esperti. Racconta, con piglio a volte un po’ nostalgico, ma deciso, situazioni perlopiù note, muovendosi agevolmente tra esse con salti di scala, di tempo, di luoghi. È una sorta di grande inchiesta il cui primo pregio è parlare di case a tutti, tema oggi meno frequentato di quanto non fosse in passato. Alcune parti sono effettivamente pubblicate su riviste. Perché racconto politico nel sottotitolo? Perché le cose sono fin da subito avvicinate dalla parte di chi ha difficoltà: a pagare una casa, ad accedervi, a godere di spazi urbani decorosi. Di chi non avendo casa, è costretto a tenere con sé sempre gli oggetti necessari o cari. “Non avere casa (…)significa perdere i pezzi della propria storia”. Dei danni delle politiche liberiste e delle insufficienze delle politiche tout court.
C’è un aspetto tra i tanti che vorrei riprendere, rimanendo sul terreno proprio di questo libro: quello dell’opinione pubblica. Tra i molti spunti che questo contiene ne isolo solo uno che riguarda la vicenda Pruitt Igoe, ma potrebbe essere riferito alla demolizione dei Robin Hood Gardens (capolavoro dell’architettura brutalista degli anni sessanta), o delle meno nobili torri di via Arquata a Torino, delle torri a Zingonia, delle Vele a Scampia, solo per restare in Italia. Insomma, l’abbattimento di edifici moderni degradati. Naturalmente sono stati numerosi i tentativi, dentro la cultura del progetto, di proporre un’uscita dallo spazio della città moderna, intendendo qui, per città moderna, quella città. Un’uscita che ne mettesse in crisi le figure e i materiali, rivedendoli entro nuove e diverse interpretazioni della condizione urbana. Tutto questo è parte della storia dell’architettura che è venuta dopo il moderno. Le critiche sono state numerose e largamente giustificate. Anche se, aggiungerei, poco attente al fatto che quel tipo di edilizia è riuscita a dare casa a chi, semplicemente, non l’aveva.
Come mai la demolizione di quell’architettura catalizza tanto l’attenzione fino a offuscare le intenzioni democratiche, etiche e politiche che accompagnavano spesso (non sempre) la costruzione di quei nuovi pezzi di città? Ho trovato un suggerimento in un passaggio di un vecchio articolo (1992) recentemente pubblicato in italiano, di Michel Houellebecq (Interventi, La Nave di Teseo, 2022; lo scritto si intitola significativamente: In relazione alla perdita di sé). Il passaggio mette al centro la difficoltà dell’abitare nell’edilizia prodotta dall’azione pubblica nei primi decenni del dopoguerra: “Per realizzare ciò che il comune cittadino pensa del modulo architettonico entro il quale lo si costringe a vivere, basta osservare le sue reazioni quando si decide di far saltare uno di quei blocchi abitativi costruiti in periferia negli anni sessanta: è un momento di gioia purissima e violentissima, analoga all’ebbrezza di una liberazione insperata. Lo spirito che abita quei luoghi è uno spirito malvagio, disumano, ostile; è quello di un ingranaggio sfibrante, crudele, costantemente accelerato; chiunque lo avverte dentro di sé, e ne desidera la distruzione”. Quella felicità è la plastica reazione all’interruzione di un meccanismo nel quale ci si sente intrappolati. Un meccanismo che segna la perdita di sé. É la liberazione da un lutto che non riguarda un oggetto, uno spazio, ma sé stessi.
In altri termini, non è (tanto o solo) questione dell’architettura e dei suoi linguaggi, ma dello spirito malvagio, disumano, ostile nei confronti di tutti coloro che cercano di abitare. Così che la demolizione (qualsiasi demolizione) sia intesa come rivincita. Non so quanto sia condivisibile il giudizio di Houellebecq, la diffidenza e la negazione delle ragioni e degli intrecci, non solo economici, che sono alla base di quell’edilizia. Rimane quell’identificazione, oggi sempre più ricorrente, di quella stagione e la “perdita di sé”. Identificazione che sostiene l’uso del termine politico, oggi così attrattivo. Anche questo trapela, a me pare, nel libro di Gainsforth teso a ricostruire le mille vicende di una grande fatica.
c.bianchetti@fastwebnet.it
C. Bianchetti insegna urbanistica al Politecnico di Torino