di Giovanni Torrente
Stefano Anastasia
Le pene e il carcere
pp. VIII-200, € 15,
Mondadori Università, Milano 2022
Cosima Buccoliero e Serena Uccello
Senza sbarre
Storia di un carcere aperto
pp. 136, € 15
Einaudi, Torino 2022
Sono usciti vari recenti volumi che offrono ai lettori nuovi materiali per una discussione critica sul carcere e la pena. Il libro di Stefano Anastasia ripercorre, con un taglio sociogiuridico, le caratteristiche contemporanee della penalità, concentrandosi sul caso italiano, senza tuttavia trascurare i collegamenti tra quanto accaduto nel nostro paese e le dinamiche globali che hanno caratterizzato il punitive turn statunitense. L’autore, in una prima parte, tratta i mutamenti strutturali della penalità, e in particolare quella che egli definisce “la floridità del carcere nel XXI secolo”, manifestatasi in primis attraverso l’aumento dei tassi di detenzione. Poi passa ad analizzare la genesi della crescente domanda di sicurezza che ha attanagliato le società occidentali a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, per poi trattare le dinamiche del populismo penale, con il radicale mutamento di prospettive e di linguaggi prodotto dal discorso populista in campo penale. Nella terza parte, l’autore individua nella “giurisprudenza umanitaria”, delle Corti nazionali e sovranazionali, il limite concreto al potere punitivo, sia negli Stati Uniti, sia in Europa e in particolare in Italia. Infine, nell’ultima parte, vengono attualizzati alcuni dei tradizionali principi del garantismo penale in materia di limiti nella legittimità del punire, dell’utilizzo della forza da parte dello stato e del necessario rispetto dei diritti fondamentali della persona sottoposta a limitazioni della libertà personale.
Il libro è ricco di spunti e costituisce un prezioso strumento didattico, molto utile in particolar modo nei corsi di studi in giurisprudenza per studenti che vogliano approfondire i temi legati alla penalità da una prospettiva a cavallo fra la filosofia della pena e la sociologia del diritto. Lo sguardo interpretativo che emerge risente naturalmente della poliedricità dell’autore, il quale, oltre a insegnare filosofia e sociologia del diritto, è anche Garante dei diritti dei detenuti per la regione Lazio, dopo aver rivestito la medesima carica per la regione Umbria. Da tale prospettiva deriva forse anche l’enfasi dedicata al ruolo assunto dalla giurisdizione, e quindi dalla tutela dei diritti, nella riduzione dei tassi di carcerazione, fenomeno che da oltre dieci anni riguarda anche gli Stati Uniti. Chiaramente il ruolo delle Corti è stato molto importante in questi anni nel porre un freno al potere punitivo dello stato, proprio in quelle fasi in cui il populismo penale sembrava richiedere con sempre maggiore enfasi carcere e pene esemplari per i più svariati fenomeni di devianza sociale. Pratiche quali la strategic litigation, ad esempio, hanno dimostrato come il ricorso alla giurisdizione possa essere un mezzo concreto per migliorare le condizioni dei detenuti e mettere in discussione pratiche del carcere fossilizzate nel tempo. Ci si chiede tuttavia quali siano i limiti di una prospettiva eccessivamente fiduciosa nell’efficacia del contenzioso giurisdizionale. Gli interventi delle Corti, infatti, da un lato non paiono essere sufficienti a provocare una diminuzione strutturale della popolazione detenuta. Il caso italiano da questo punto di vista è emblematico, là dove l’adozione di misure che hanno favorito una riduzione delle presenze – a seguito della Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri c. Italia) – è stata seguita da una repentina inversione di rotta nel momento in cui le autorità europee hanno dichiarato la chiusura del “fascicolo Italia” per le condizioni di detenzione. Dall’altro lato, ci si chiede sino a quale livello possa giungere lo strumento giudiziario nel migliorare concretamente le condizioni materiali delle carceri, là dove esso non pare essere in grado di mutarne strutturalmente le dinamiche, forse addirittura arrivando a favorire riforme gattopardesche, là dove non vi siano assenze di un adeguato monitoraggio dei meccanismi di attuazione delle stesse.
Una diversa prospettiva è invece proposta da Cosima Buccoliero e Serena Uccello. In questo caso si tratta di un libro che potrebbe essere collocato in un filone letterario (ipotetico) di una particolare memorialistica ossia le memorie dei direttori di carcere. Il volume in questione segue infatti di poco la pubblicazione di altri libri scritti da direttori o ex direttori di carcere (Di cuore e di coraggio di Giacinto Siciliano, Rizzoli, 2020 e Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere di Luigi Pagano, Zolfo, 2020). In questo caso l’esperienza narrata è quella di Cosima Buccoliero, dirigente dell’amministrazione penitenziaria, nota soprattutto per essere stata a lungo la direttrice della Casa di reclusione di Bollate, a Milano. Il libro racconta con sincera passione l’esperienza alla direzione di quello che è ritenuto, con buone ragioni, il carcere più all’avanguardia del nostro paese, dove il dettato costituzionale e i principi dell’ordinamento penitenziario sono rispettati attraverso pratiche in grado di offrire numerose opportunità lavorative e di formazione, superando molte prassi – oppressive e poco sensate – su cui tradizionalmente si fonda la routine dei penitenziari italiani. Il libro racconta la nascita di Bollate e l’incontro di alcuni fra i più illuminati rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria del nostro paese (oltre all’autrice sono ricordate le figure del già citato Luigi Pagano e di Lucia Castellano) che hanno avuto il merito di pensare un carcere che rendesse attuabile un trattamento volto al reinserimento sociale, prospettiva che dovrebbe orientare l’azione di ogni penitenziario.
Il libro spiega nel dettaglio le condizioni che hanno favorito la nascita di un istituto di reclusione unico nella galassia del nostro paese e, dallo scorrere delle pagine, emerge chiaramente come gli attori coinvolti nella nascita del “modello Bollate” siano dirigenti con una chiara mission professionale che hanno cercato di tradurre in pratiche concrete principi tanto declamati quanto destinati a rimanere sulla carta. Ecco, quasi per assurdo, la lettura del caso Bollate lascia però un grande dubbio: chi frequenta le carceri ha l’impressione, anzi la percezione, dell’eccezionalità del caso. Perché lo spirito che emerge dalle parole di Cosima Buccoliero è difficile ritrovarlo in altre situazioni e le pratiche che caratterizzano molti penitenziari italiani, così diversi e distanti, paiono tradire il fatto che Bollate in qualche modo sia un’eccellenza per nulla rappresentativa del vero carcere in Italia. Eppure, come si scriveva, Bollate rappresenta poco più che il tentativo di rendere concreto – “pena in action” riprendendo le parole di Stefano Anastasia – il modello penitenziario pensato dal legislatore del 1975. Purtroppo, la lettura del libro non spiega le cause di quel caso eccezionale, ma riafferma, quasi paradossalmente e sicuramente in contrasto con la volontà delle autrici, il fatto che la nascita del “modello Bollate” sia il frutto di una selezione del personale dirigente, degli agenti di polizia penitenziaria assegnati e, perlomeno nella prima fase, dei detenuti meritevoli di accedervi. Ecco, la sensazione di un modello riservato a pochi, unico e poco replicabile, lascia un po’ di amaro in bocca al lettore che vorrebbe che il carcere ovunque, a prescindere dalla selezione dei soggetti coinvolti, rispecchiasse quei principi di dignità e di speranza che il libro fa emergere in tutta la loro portata dirompente.
giovanni.torrente@unito.it
G. Torrente insegna filosofia del diritto all’Università di Torino