di Mario Marchetti
Il comitato di lettura fra 926 concorrenti ne ha selezionati dieci. Compito non semplice ‒ perché i testi erano tanti e non pochi i pregevoli ‒, ma affascinante per lo sguardo che ci ha permesso di lanciare nell’immaginario contemporaneo. Da sottolineare, il contributo assolutamente paritario alla scrematura finale di donne e uomini, cinque e cinque, pur senza alcuna voluta pianificazione.
Quali i tratti di maggior rilievo nei testi selezionati, ma anche in numerosi altri tra quelli pervenuti? Intanto un diffuso sentimento di incertezza esistenziale, quasi di estraneità, in particolare da parte delle voci femminili, che si sentono coartate nei costrutti di ruolo e di comportamento. Un intenso coinvolgimento, poi, rispetto ai rapporti intrafamigliari in un mondo in cui la dimensione collettiva è venuta in gran parte meno se non nelle sue variegate forme virtuali, la famiglia, per quanto disfunzionale o segnata da incomprensioni e conflitti, conquista o riconquista il focus narrativo, non tanto come struttura economica, sociale e mondana, ma essenzialmente come struttura psicologica (se non psichiatrica) e affettiva. Al totale inabissamento della dimensione politica e al connesso svuotarsi di orizzonti di cambiamento, si risponde con prospettive che fanno perno sull’individuo, singolarmente preso, e sulla sua possibilità di optare per la dignità e il rispetto di sé, prospettive narrativamente elaborate, talora in sofisticate forme di parabola. E ciò – è bene precisarlo – non a detrimento di una lucida critica rispetto alla sfera politica e alla macchina sociale, ai riti e ai miti contemporanei.
Se di futuro anche vicino si parla, si attinge alla distopia, a un imminente crepuscolo, se non a una fine, percepiti come inevitabili. Assai apprezzabile un diffuso interesse per la dimensione lavorativa, soprattutto quella delle attività precarie – considerate ormai come un dato di fatto – nel loro condizionante intreccio con la dimensione esistenziale e affettiva; ma anche quella di chi, nelle generazioni passate, in essa ha tanto investito per uscire dall’ancestrale miseria, e magari ne vede adesso i frutti disfarsi con un’incomprensione di risulta per le nuove generazioni. Buona ancora la resa di ambienti locali che fanno da policroma campitura alle vicende se non ne sono addirittura gli autentici protagonisti, come l’hinterland lombardo, la provincia marchigiana, il Veneto della montagna, la Liguria collinare, il Polesine di qualche decennio fa, la Palermo della Vucciria, o le stesse Trieste, Genova e il Napoletano in testi il cui nucleo può apparire altro. E infine, piacevole sorpresa, non mancano le tonalità ironiche, divertite e divertenti, almeno in qualche testo, pur se comunque declinate all’interno del quadro accennato.
Ma vediamo più da vicino i dieci manoscritti prescelti. Diciamo subito che abbiamo evitato di selezionare testi che fossero troppo mimetici di una presunta realtà soprattutto giovanile, così come testi di grana consolatoria o commerciale, pur se ben confezionati. Per quanto le opere finaliste non siano ascrivibili a una medesima ispirazione o linea narrativa, tutte affrontano, magari in chiave indiretta, nodi esistenziali o tematici di rilievo. Iniziamo con l’apocalittico a bassa intensità – senza effetti speciali da film catastrofico, ed è questa la sua originalità – Tanto poi moriamo di Marianna Crasto: un gruppo di personaggi, ruotanti attorno a un centro commerciale – luogo antonomastico della contemporaneità –, in una palpabile e vivida Campania infelix, attende la fine del mondo annunciata per una scadenza precisa. La narrazione con lingua spedita segue le loro reazioni in un viaggio verso il nulla sentito come esito inevitabile dell’antropocene. Con Risacca di Francesco Marangi, il giovanissimo autore scava con visionarietà faulkneriana nei morbosi rapporti di un nucleo famigliare, acuiti dalla presenza di un lavorante nero, ordendo un complesso andirivieni temporale dove voci e versioni si giustappongono le une alle altre, come monologanti. Fanno da nitido contrappunto i contrafforti collinari liguri con i loro odori, i loro colori, il mare sottostante. La risacca sembra allontanare i detriti, ma l’onda successiva li riporta a riva: il passato, insomma, non è mai morto. Da uno scenario mediterraneo passiamo a uno scenario cadorino con Un chiodo storto di Stefano Casanova dove con una scrittura scarna, attentissima a gesti e oggetti, si disegna davanti a noi un intero mondo tra gli anni quaranta e i settanta soprattutto (ormai estinto, pur se non remoto), col suo duro lavoro, il vino ristoratore e le sue poche parole. Protagonista un eroe semplice e insieme malinconico, che procede nella vita a occhi chiusi, animato però da un profondo senso di ciò che è giusto e senza mai venire meno alla propria dignità. Dignità che ritorna in un altro romanzo, La scelta di Giulio Natali, anch’esso una sorta di parabola, nel caso sottilmente crudele e beffarda, di cifra brechtiana. Ci troviamo nel maceratese tra gli anni ottanta e oggi, tra sviluppo e regresso, come è avvenuto in tanta provincia italiana nello stesso periodo. Al centro la paradigmatica famiglia Micozzi, descritta con occhio entomologico tra bottega famigliare, multinazionali e mercato del sesso. Si salverà solo la madre, semplice nella sua bellezza, che si troverà a dover accettare – in realtà una scelta –, per rispetto di se stessa, i lavori più umili, pultroppo (è il suo modesto “preferirei di no”).
Ed eccoci al romanzo brianzolo Quasi niente sbagliato di Greta Pavan, altro efficace spaccato ambientale, narrato con una lingua sporca (come sporco è il paesaggio) attraverso tasselli semindipendenti di cui è protagonista tra infanzia e giovinezza una figura femminile inconciliata delle nuove generazioni. La sua sofferta rivolta contro l’etica lombardo-veneta della fatica e dei valori costituiti non potrà che essere dimostrativa e individuale. Un’altra figura femminile inconciliata appare nello sperimentale Croste di Jessica La Fauci, un testo fondamentalmente analitico dove, per frammenti, si traccia un percorso di sempre più radicale estraniazione rispetto al mondo, alle consegne sociali, alle relazioni, a conclusione del quale non resta che un corpo sfatto abitato da ricordi. Una cantina, dove si affastellano gli oggetti che non si possono buttare né tenere fa da correlato oggettivo all’accumulo mnestico. Sfondo una suggestiva Genova, mai citata. Una sorta di favola nera – ma tenuta al limine – è, come suggerisce lo stesso titolo, La favola racconta che di Rita Siligato, perfetto quadro di una famigliola piccolo-borghese apparentemente felice visto attraverso l’occhio sensibile dell’undicenne Teresa, che comincia a percepire come gli adulti nascondano sempre qualcosa ai bambini. La suspense è accuratamente costruita con una serie di segnali per arrivare a una tragedia domestica dal finale abilmente criptico. L’innominata città del borino e del mare è palesemente Trieste. Una bambina col suo sguardo fenomenologico e smascherante sugli adulti compare anche nell’ampio romanzo Sono d’acqua i nostri pensieri di Loretta Franceschin – intriso, appunto, delle acque del Polesine –, che con la sua limpida prosa analizza con grande finezza un rapporto matrimoniale coi suoi ondeggiamenti, i suoi detti e i non detti, le sue fibrillazioni, la sinusoidalità del desiderio. E sono proprio le domande della bambina a produrre una prima incrinatura nel rapporto tra la madre e il padre adottivo. Siamo a cavallo del 1970 in una provincia periferica descritta con grande perizia in un momento in cui confliggono il vecchio e il nuovo, ma la grammatica dei sentimenti è sempre attuale. Scendiamo a Palermo, più precisamente alla Vucciria con Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo di Giorgio B. Scalia, una narrazione dai tratti surreali, benché perfettamente incuneata nel celebre mercato. Con amabile ironia e facendo ampio ricorso a un dialetto siciliano accogliente, ci racconta della trasformazione in santo del mite pescivendolo Saro – ancora un semplice, un puro, sia pur ridicolmente dignitoso – innamorato della sua folta capigliatura. La discesa sulla sua nuca di una colomba che gli strappa un ciuffo mettendo a nudo un’effigie di Cristo segna l’inizio della sua gloria ma anche delle sue tribolazioni. Un divertissement tra sacro e profano, sotto traccia struggente. Infine I calcagnanti di Nicolò Moscatelli, una fantasticheria nutrita di elementi provenienti dalle più diverse tradizioni popolari e carnascialesche che ricorre con notevole maestria alla lingua furbesca. Un’utopia picaresca e anarchica che si svolge in un composito cronotopo di invenzione in cui il mondo di sotto, quello dei marginali e dei poveri, combatte vittoriosamente il mondo di sopra dei potenti e dei ricchi. Un testo scintillante di intelligenza e ironia, a suo modo un viatico di speranza: peccato, però, che si tratti del mondo alla rovescia.
Stile e lingua, come si è rapidamente accennato, sono mediamente di buon livello per coerenza e capacità di evocazione, in un ampio ventaglio che va dalla scrittura spigolosa ed espressionista di Quasi niente sbagliato alla cifra ricercata di Croste passando per la prosa fluida di Sono d’acqua i nostri pensieri, a quella attenta al dettaglio di Un chiodo storto e La favola racconta che, al procedere rapido e tagliente di Tanto poi moriamo e La scelta, a quello denso di Risacca, ai brillanti impasti di Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo e dei Calcagnanti.
Nell’insieme un panorama vario per temi e scrittura, e nuovo. Ma soprattutto singolare per l’opzione etica che sembra innervare tutti i testi. Un segnale: chissà.
Comunicato della giuria
La Giuria, preso atto della buona qualità complessiva dei manoscritti, decide di assegnare il Premio a I calcagnanti di Nicolò Moscatelli, un romanzo che costruisce con straordinaria sapienza linguistica e culturale un mondo fantastico, che mescola e fonde tratti di tanti altri mondi fantastici della tradizione narrativa e popolare italiana e non solo, quella carnascialesca e del mondo alla rovescia: un racconto accattivante che con spirito anarchico trascina il lettore, proponendo anche, sotto traccia, una sorta di laica e beffarda utopia.
Tre menzioni speciali della Giuria a pari merito vanno poi a Quasi niente sbagliato di Greta Pavan, a Un chiodo storto di Stefano Casanova e a Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo di Giorgio Benedetto Scalia.
Quasi niente sbagliato inscena, con originalità costruttiva e con una lingua di straordinaria espressività, un personaggio femminile inconciliato dei nostri tempi e, insieme, tutto un ambiente sociale, quello della Brianza della religione del lavoro, colto nelle sue pieghe più riposte.
Un chiodo storto, con scrittura scarna e veloce, ma attenta ai particolari, tratteggia l’esistenza di un umile, anch’egli inconciliato, che si lascia vivere, senza però mai venir meno a un profondo senso della giustizia e della dignità, sul perfetto sfondo cadorino di una civiltà in estinzione.
Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo, una narrazione dai tratti surreali, seppure perfettamente inserita nel contesto palermitano della Vucciria, caratterizzata da un ironico gioco tra sacro e profano e con al centro un eroe un po’ comico la cui divisa è la mitezza.
Mariolina Bertini
Sandro Campani
Enzo Fileno Carabba
Donatella Di Pietrantonio
Orazio Labbate