Enrico Macioci – Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia

recensione di Alfredo Palomba

Enrico Macioci
Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia
pp. 108, € 14
TerraRossa edizioni, Alberobello BA 2022


Dopo Tommaso e l’algebra del destino (Sem, 2020), Enrico Macioci torna a dar voce all’infanzia nel breve romanzo Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia (TerraRossa Edizioni, 2022). Nell’opinione di chi scrive il titolo è, francamente, magnifico, e tanto è potente quanto inaspettata ne è l’origine: la frase scelta da Macioci è stata infatti pronunciata dal seienne Alfredo Rampi quando ormai, dopo essere caduto in un pozzo artesiano nelle campagne del Vermicino il 10 giugno 1981, perdeva lucidità e cominciava a morire. L’arco narrativo si sviluppa proprio tra il 10 e il 13 giugno 1981, quando due fatti sconvolgono contemporaneamente la sensibilità nazionale e quella personale di Francesco, il giovanissimo narratore in prima persona: la caduta di Alfredo Rampi nel pozzo e la sparizione del miglior amico di Francesco, Christian, mentre tornava a casa a piedi. “Il Paese si rannicchiò sul bordo di un pozzo, si rannicchiò intorno a un bimbo di nome Alfredo Rampi ignorando che un altro bimbo di nome Christian Crèoli fosse sparito alla medesima ora e non si sapeva perché o percome”, riflette il narratore, ormai adulto. In effetti il romanzo procede così, seguendo questo doppio binario: le due tragedie, quella pubblica e quella privata, riflettono però un tema comune caro a Macioci, la perdita dell’innocenza.

Mentre nel romanzo precedente tale perdita è circoscritta all’abitacolo dell’auto in cui viene dimenticato Tommaso e ha toni più squisitamente horror, in Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia – sebbene non manchino accenti di oscuro onirismo – la riflessione è meno visionaria ma indaga anche la dimensione sociale: durante quei tre giorni fatidici l’Italia che assisteva alla morte minuto per minuto diventò essa stessa il bambino nel pozzo, sempre più preda della consapevolezza spaventosa che le storie – perfino le storie d’infanzia – non hanno come clausola alcun lieto fine. “Volevamo un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte”, annunciava il giornalista Giancarlo Santalmassi: “Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare”.

Il pozzo del Vermicino si trasformò, allora, in metafora di quell’abisso che, se ci guardi dentro troppo a lungo, poi guarda dentro di te: il Paese subì in diretta la morte di un bambino, provando pena, empatia ma anche, ricorda cupamente il narratore, un sentimento segreto: “Si soffriva, credo, con sincerità; ma credo altresì che in una zona ben celata del misero cuore umano si gioisse”; non eravamo noi nel pozzo, potevamo e possiamo assistere all’evento più osceno come si assiste a un film, protetti, al sicuro. Si realizzò, forse per la prima volta, che lo spettacolo televisivo, quando si mescola col tessuto della realtà, può tradire. Anche la scomparsa di Christian è vissuta dal piccolo Francesco come un tradimento e, soprattutto, come suprema disillusione. I giorni di ricerca del suo amico corrispondono alla graduale perdita di fiducia nei confronti del mondo adulto, che svela suo malgrado le crepe fino a quel momento invisibili al narratore bambino. “Le madri e i padri non erano infallibili, le madri e i padri talvolta sbagliavano“, realizza con dolore il protagonista, aggiungendo: “In un modo o nell’altro gli adulti ci tradivano”.

Il mondo adulto, così come in Tommaso e l’algebra del destino, è analizzato con partecipato disincanto dagli occhi di chi ancora non conosce ma, al contrario di chi è ormai cresciuto, sa: l’esperienza traumatica genera in Francesco l’intuizione per cui, sotto la superficie delle parole rassicuranti, giace per tutti la stessa paura della stanza buia, un luogo in cui tanto i bambini quanto i grandi pregano di non finire, il luogo in cui si è più soli al mondo. Macioci si riconferma, con questa sesta prova, uno scrittore solido e dalla precisa identità, capace di raccontare l’infanzia con delicatezza ma senza cedere a facili sentimentalismi e con la necessaria spietatezza, che manca in troppe narrazioni con protagonisti i bambini. L’influenza di Stephen King, come per Tommaso e l’algebra del destino, è forte e, va detto, costituisce talvolta un ingombro, in un romanzo che peraltro resta notevole e piuttosto originale. Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia sta tutto qui, al confine tra lo stupore e il dolore per lo strappo improvviso della perdita – di un amico, della fiducia negli altri, della speranza che un bambino finito in un pozzo possa uscirne – e il tentativo dolce e dolente insieme di non abbandonarsi alla disperazione, guardare l’oscurità negli occhi, portarla con sé per quanto possibile, sopportarne il peso.