La mamma me lo diceva sempre. Non aprirgli mai la porta. Anche se la maniglia fa su e giù, e trema, e c’è rumore dei passi che scendono in fretta le scale, non si deve aprire. Mai.
Mamma mi spiegava anche che a volte lo si poteva sentire grattare sotto la porta, pregare dietro le serrande chiuse, chiedere di entrare, e pure se le parole non si distinguevano, noi sapevamo che lui prometteva. Prometteva che nulla sarebbe successo. Allora la mamma diceva di fare più attenzione, che quello era un inganno. Io domandavo che cosa fosse un inganno, e lei mi diceva che si riconosce solo quando ci si casca. Quando si sentiva forzare l’ingresso di quella che un tempo era casa nostra, mi sarebbe piaciuto rimanere lì, immobile, solo per sapere se davvero riusciva a entrare, per vedere come era fatto. Almeno una volta, una sola.
La mamma invece mi afferrava subito, mi trascinava al centro del salotto e mi diceva che mai e poi mai avrei dovuto farlo passare, e che, se vi fosse riuscito, non avrebbe dovuto trovarmi. Nasconditi, nasconditi, così mi diceva la mia mamma. E io lo promettevo, dita incrociate, mano sul cuore, e quando la maniglia della porta smetteva di agitarsi, noi sapevamo che, per il momento, era andato via. Io prendevo coraggio e suggerivo alla mamma se non fosse meglio uscire più spesso, andare dove non ci fossero porte o finestre, all’aperto, così avremmo potuto sorprenderlo, legarlo, tenerlo lontano davvero. La mamma scuoteva la testa, No, non funziona così, diceva, è meglio nascondersi in casa, aspettare che vada via. Mi aveva insegnato come nascondermi a scuola, nei negozi, ovunque. E più di ogni altra cosa, a nascondermi senza che gli altri se ne accorgessero. Se tutti sanno che mi nascondo, mi insegnava la mia mamma, allora cercheranno di tirarmi fuori, mi chiederanno che cosa stia facendo, e lui mi vedrà. Lui non deve mai vedermi. Così, se sentivo la maniglia della porta della classe sussultare, o picchiettare contro il vetro di una gelateria, io restavo immobile. Appiccicavo il mento al petto, poi curvavo le spalle, le braccia intorno alle ginocchia, e subito ero sotto il banco, o il tavolo, sparivo fino a quando lui non spariva.
All’inizio la mamma si rannicchiava con me, poi ha deciso che ero diventato abbastanza bravo da uscire da solo. Sparivo mentre giocavo a pallone, in fila per il cinema, non mi trovavano più e non mi cercavano.
C’erano giorni però, in cui lo scambiavo per una folata di vento troppo forte, lo zampettare di un gatto randagio mi sembrava i suoi piedi che mi rincorrevano. Raccontavo tutto alla mamma, e le dicevo che se lui non era proprio dappertutto, allora non ci si doveva nascondere sempre. Forse a volte si poteva essere liberi, e non c’era bisogno di avere paura. La mamma si arrabbiava, gridava che proprio non capivo niente, lui lo faceva di proposito, voleva confonderci. Così riprendevo a nascondermi, meglio di prima.
Adesso che sono adulto, lo riconosco subito, non mi imbroglia più, lo sento arrivare anche se sono in ufficio o al ristorante. Quando succede, resto fermo al mio posto, e aspetto. Divento invisibile. Finora non mi ha mai trovato, forse neanche mi riconoscerebbe. Sono un uomo, non sono più un bambino. Mia madre sa che non deve preoccuparsi per me, e io non mi preoccupo per lei. Quando vado a trovarla, ed entro in casa, lei non si vede, sa sparire benissimo a ogni sospiro di foglia. Non provo nemmeno a cercarla, non la chiamo, non guardo i posti in cui potrebbe essersi nascosta, perché non voglio lasciare a lui alcuna traccia.
Da bambino chiedevo a mia madre da dove venisse, perché ci cercasse così tanto, se bussava solo alla nostra porta, o anche a quelli di altri bambini. Mia madre mi accarezzava i capelli, e mi diceva che un giorno avrei capito. Ed è vero, adesso capisco. Capisco che le domande impediscono di nascondersi abbastanza in fretta, perché lui non veda.
Lo sento, adesso, dietro la porta del mio appartamento. È fermo da un po’, sembra desistere, il suo respiro è un rantolo incessante. Non gratta più, non sussurra, sa che so nascondermi meglio di chiunque altro. Sono così bravo che potrebbe avvicinarsi fino a sfiorarmi, e io saprei sparire in un baleno, lo lascerei smarrito nel mio appartamento. Allora sbircio dal buco della serratura, per un momento, solo per assicurarmi che si sia arreso. Spio perché sono un uomo, e le domande che avevo da bambino non mi fanno più paura. È tutto nero. È silenzioso. Apro la porta, ma solo un pochino, perché voglio almeno vedere come è fatto.Allungo l’occhio sul corridoio. Non lo vedo.
La porta si spalanca all’improvviso, urta la mia fronte, il sangue mi cola sugli occhi, lui è più forte, la spinge e io provo a richiuderla, ma non riesco a trattenerlo. È entrato. Dilaga nel mio appartamento, e io non posso nascondermi. Perdonami, mamma. Ora so che non avrei mai dovuto farlo entrare.
Lui non ha gli occhi, eppure mi fissa. Mi volto, non voglio vederlo, spargo il sangue sugli occhi pur di non guardarlo, e lui si allunga verso di me con tutto il suo corpo. Non ha braccia, da lui si diramano solo lunghissime dita, che mi si attaccano alla faccia. Stringo le palpebre, quelle dita sono gelide e viscide, scorrono liquide sui miei occhi, sono spilli nelle pupille. Si aprono, i miei occhi, le dita mi assorbono la faccia, e io sono costretto a guardare. Tutto il corpo di lui si avvicina a me, mi sovrasta, mi cola addosso. È solo nero intorno, il mio appartamento è sparito, sento l’odore dei giorni che ho trascorso a nascondermi, e riconosco la vita vissuta a guardare i piedi degli altri che procedevano, mentre io dovevo restare immobile. Sono fuori da me, e penso di avere trovato finalmente il luogo perfetto da cui non uscire mai. Mi avvolge, riconosco il bambino che si nasconde sotto i tavoli, che fa di tutto per essere invisibile, in attesa che la mamma lo trovi, e gli dica che va tutto bene. Vedo la madre che insegue il bambino, è importante nascondersi, la mamma che lo cerca, e il bambino che continua a scappare, il bambino che cerca la mamma, che corre via quando la trova, dietro di lui i passi della madre, che lo cerca, il bambino che si nasconde.
Spalanco la bocca e grido, grido fortissimo, lui trema, e mi entra in gola, finché non sparisce. Ora è lui che si nasconde, dentro di me.