Tornare a respirare
recensione di Francesca Valente
Luiz Schwarcz
L’aria che mi manca
trad. it. di Roberto Francavilla
pp. 180, € 16
Feltrinelli, 2022
«Fuggi, figlio mio, fuggi» è la frase che un anziano ebreo ungherese dice al figlio nel vagone di un treno diretto al campo di sterminio di Bergen-Belsen. Il figlio fugge, ma non sarà mai libero: riparato in Brasile, dove ricostruirà il suo mondo, André – András – porterà con sé il fantasma del padre Láios, che non rivedrà mai più, e per tutta la vita non riuscirà a fuggirne la memoria o a sottrarsi all’angoscia e al senso di colpa che, anzi, lo trascineranno nella depressione. E sarà proprio questa la principale eredità che André lascerà al proprio figlio Luiz, forzandolo a prendersi un fardello irriducibile, a sollevarlo dal rimpianto, a liberarlo. Senza mai dirgli di fuggire per salvarsi, ma costringendolo a passare il resto della sua esistenza a tentare di renderlo felice. A sfocarne il fallimento. Comincia da qui – da «Ciò che è rimasto a Bergen-Belsen» e da un episodio di panico sulla montagna – il racconto di Luiz Schwarcz, fondatore della casa editrice brasiliana Companhia das Letras che nel romanzo autobiografico L’aria che mi manca ci invita (anzi, ci trascina) a visitare le stanze di un’infanzia trascorsa in una famiglia la cui storia complicata ha dato forma alla sua vita adulta, insinuandovisi e causando una depressione che non l’abbandona mai e lo conduce, a un certo punto, a una diagnosi di disturbo bipolare. Di cui Schwarcz ci porta a indagare, insieme a lui, le origini e lo sviluppo. Come l’autore dichiara nell’epilogo, il libro è stato costruito sulla lunga storia di silenzi che ha segnato più d’una generazione della sua famiglia: silenzi che pesano «ben più che se la verità fosse stata raccontata». E “silenzio”, infatti, è la parola che più ricorre nel racconto. Il silenzio di Láios, interrotto solo, ma potentemente, da una spinta alla fuga; il silenzio di André che origina nel suo profondo dolore irrisolto e si riversa nel rapporto con la moglie e il figlio; il silenzio di Mirta, madre di Luiz, che annida nel non detto la sofferenza causata prima dall’incompatibilità con il marito e poi dalla sua perdita; il silenzio di Luiz, affossato dalla più o meno plateale richiesta dei genitori di salvare il loro matrimonio, e le loro stesse vite, di essere «un mini-messia familiare». Un silenzio che fa mancare l’aria, nascendo da un’assenza: un’assenza di chiaro di luna, come dice il titolo d’un romanzo di Schwarcz mai pubblicato e un cui estratto compare in fondo al libro.
Come i non detti, anche i non scritti contano moltissimo: sono i libri di Schwarcz inediti, verso i quali l’autore è straordinariamente critico, che contribuiscono a formare l’ossatura di questo testo – l’ultimo, dichiara, prima di ritornare a fare il suo lavoro di lettore – e che dicono di lui almeno quanto quelli pubblicati.
Cuore del libro è il padre di Luiz, André, che sente su di sé la doppia responsabilità d’aver abbandonato il proprio padre e di non essersi adeguato al suo rigore religioso. Forse anche per questo usa le festività ebraiche, come Yom Kippur, per onorarlo: dedica la giornata a lui e alle lacrime, pur trattenute così che gli occhi diventano acquosi e arrossati, e pretende accanto a sé il figlio durante la preghiera. E a proposito di lacrime, Schwarcz racconta che per anni, a causa degli antidepressivi e degli stabilizzatori dell’umore, piangere gli era diventato quasi impossibile. È questo uno dei punti di contatto – come “il suono” con cui si manifesta per la prima volta la sua depressione – che l’autore, almeno nel libro, sembra trovare con il padre. come momenti di un’esistenza mai realmente condivisa e i cui meccanismi tuttavia continuano anche dopo la morte del genitore. Ma i due non sembrano incontrarsi mai: benché accomunati da quel senso di colpa iniziale, passato come un testimone dal nonno al nipote che ne porta il nome, sono divisi da visioni e attese diverse, a cominciare da ciò che riguarda la sfera delle relazioni sentimentali.
S’intreccia alla vicenda paterna quella della madre Mirta, nata in Croazia e fuggita ancora bambina in Italia e poi in Brasile – grazie alle gesta eroiche del padre che salva la famiglia prima che i nazisti occupino il paese. Anche lei, immersa nel dolore dovuto alla perdita di un figlio nato morto, incide in modo profondo nell’animo di Luiz, che irrazionalmente si sente responsabile di una tragedia familiare che lo travolge. Nella quasi totalità dei ricordi che Luiz ha della sua infanzia, la madre è nel letto: convalescente, dopo un aborto. Ed è però allora, accanto al letto dove Mirta riposa e legge insieme al figlio, che Luiz sviluppa quell’amore per la letteratura che un giorno lo porterà a fondare una casa editrice. Ciò che più colpisce – oltre alla franchezza del racconto, nel quale l’autore, uomo di successo, si priva di ogni maschera, rinuncia alla sua persona – è la tenerezza, la delicatezza amorevole con cui Schwarcz narra le storie dei suoi genitori e dei suoi nonni e che in qualche modo sembra rivelare la cura che per tutta la vita ha sentito di dover avere nei confronti del padre e della madre, per lui tuttora eroi. Ogni passaggio nell’esistenza di loro tre, ma anche in quella di Luiz con la soave moglie Lili e i due figli, è descritto con una consapevolezza e una capacità critica alle quali si può giungere solo dopo anni di analisi e autoanalisi, cosa che l’autore narra con coraggiosa trasparenza, senza autocommiserazione e riconoscendo la propria condizione di privilegiato per le cure mediche private a cui ha accesso in un paese dove la disuguaglianza sociale è netta.
Con la sua onestà e il suo genuino intento di condividere una storia familiare e l’esperienza del disagio affettivo bipolare di cui soffrono circa sessanta milioni di persone nel mondo, questo libro fa sentire meno soli – come in fondo ogni libro riuscito deve saper fare – e spinge all’indulgenza verso se stessi, unica via d’uscita per tornare a respirare.