a cura di Matteo Moca
Siamo giunti al terzo appuntamento di Debuttanti, la rubrica che, con una cadenza non definita, va a curiosare tra le maglie delle nuove scritture e commenta gli esordi di autori italiani, segnalando di volta in volta una serie di libri interessanti. Gli esordi, è ovvio, sono molti ogni mese, di conseguenza questo spazio non pretende in alcun modo di coprire l’ampiezza di queste uscite, ma si affida, com’è naturale che sia, alle preferenze e alle predisposizioni di chi scrive. Buona lettura!
Gaia Giovagnoli, Cos’hai nel sangue, nottetempo
Da alcuni anni sembra che gli scrittori siano attratti nei loro romanzi dal desiderio di raccontare la riscoperta delle radici dei protagonisti attraverso una quête che può attingere a vari strumenti letterari (dal viaggio all’immersione fisica negli eventi storici fino alla comparsa di elementi soprannaturali, giusto per fare qualche esempio), un andamento che ben si lega anche al desiderio di provare a raccontare, con uno sguardo, nei casi migliori, estremamente contemporaneo, e quindi fatto di dubbi, incertezze e paure, da dove si viene, con storie famigliari uniche che si tingono però di caratteri universali. Cos’hai nel sangue di Gaia Giovagnoli sembra inserirsi dentro questo processo della letteratura italiana contemporanea: Caterina, la protagonista, torna nel suo piccolo paese per prendersi cura della madre non in salute, madre con cui ha sempre avuto un rapporto complesso e non lineare, e conosce un antropologo, il professor Spina, che intervista la madre e, in maniera più o meno consapevole, dissotterra un passato oscuro da cui la stessa Caterina si sente nello stesso momento attratta, per la possibilità di ricucire se stessa con il suo passato e quello della madre, e respinta, per le tinte fosche che la vicenda assume. Giovagnoli, che ha studiato antropologia, si muove con grande agio all’interno delle pieghe che può assumere un passato mitico e oscuro ed è brava soprattutto nel padroneggiare i vari registri narrativi a cui fa ricorso, dalla narrazione realista e famigliare alle visioni oniriche che talvolta scivolano nell’horror. Ciò che appare particolarmente riuscito in questo romanzo è il racconto di come si possano annodare la maternità e l’orrore, la creazione e la sofferenza, come testimonia bene la potente apertura del romanzo, un incubo disturbante che ha come protagonisti una madre e una bambina, ma anche la vicenda della madre di Caterina che rivela pian piano segreti che lei non ha mai conosciuto (è nata in un borgo oscuro, Coragrotta, da cui poi è dovuta fuggire) e che forse le forniranno una chiave di lettura diversa per entrare in relazione con una madre che è stata figlia prima di lei e che nasconde un mondo che solo lo scavo e una relazione diversa con ciò che la circonda (la famiglia, la natura, i riti) può svelarle.
Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio
«Al destino ineluttabile della madri che restano madri per sempre. Alla mia. Mi ha costretto a scrivere per inventare con le parole altre versioni di me, lontane dal tuo amore implacabile». Questa è la dedica del romanzo di esordio del siciliano Mattia Corrente, elemento che torna in mente dopo aver concluso la lettura perché, oltre all’afflato personale, sembra racchiudere anche in forma gnomica ciò che si dispiega nel romanzo. La fuga di Anna è infatti il racconto di una fuga e di una ricerca, quella di Anna, scomparsa all’improvviso dopo una vita trascorsa al posto di moglie che le è stato sempre prefigurato (il primo capitolo a lei dedicato è proprio incentrato sulla necessità del matrimonio, «tu ti sposi come ha fatto tua sorella» le dice la madre), e quella del marito Severino, che parte come ha fatto lei lasciandosi alle spalle la loro vita, ma per ritrovarla, per poter riportare Anna alla vita di prima. Le «altre versioni di me» è il passaggio della dedica in apertura che sembra assumere nel corso del romanzo un valore rivelatorio perché i due movimenti che caratterizzano i protagonisti, il dentro-fuori di Anna e il fuori-dentro di Severino, sembrano proprio essere una riflessione su ciò che sarebbero potuti essere e ciò che non sono diventati, uno studio sui what if che costellano ogni scelta della nostra vita, sul possibile che non si realizza, sulla nostalgia per un passato che avrebbe potuto configurare un futuro diverso. La narrazione di Corrente, sempre sorvegliata, si muove con elasticità e naturalezza tra spazi temporali e punti di vista della narrazione diversi, in modo che il lettore possa seguire con naturalezza i movimenti fisici dei due personaggi, ma anche come sono arrivati a questo punto della loro vita, le sofferenze, le incomprensioni, ma anche le emozioni e le gioie che l’incrocio delle loro vite ha generato. A fare da sfondo a tutto questo sta una Sicilia multiforme e cangiante che Corrente dimostra non solo di conoscere bene ovviamente, ma anche di riuscire a trasformare in uno spazio funzionale per la narrazione, con la natura che asseconda, prefigura e tradisce ciò che accade agli uomini, come nel commovente e suggestivo l’accostamento tra una pianta di agave e la maternità.
Jana Karšaiová, Divorzio di velluto, Feltrinelli
«Quando è entrata a Bratislava, ha avuto la sensazione di sempre, che sarebbe stata l’ultima volta». Così si apre il romanzo d’esordio di Jana Karšaiová, scrittrice originaria di Bratislava che ha iniziato a studiare e appropriarsi dell’italiano nel 2002, fatto certamente importante per comprendere la determinazione e l’accuratezza necessarie per scrivere un romanzo in una lingua che non è la lingua madre. Lo strappo di una lingua, lo strappo dal luogo dove si è nati, lo strappo da una cultura che si allontana sempre di più sono riflessi in Divorzio di velluto, una storia forse velatamente autobiografica, almeno per quanto riguarda la protagonista Katarìna, che torna a Bratislava per trascorrere le vacanze di Natale con la famiglia e ritrova quell’oscuro sopravvivere da cui è scappata, aggravato dalla fine improvvisa e dolorosa del matrimonio con Eugen. Katarìna vive in realtà in Repubblica Ceca, ma l’Italia è comunque presente nel romanzo, nella passione che condivide con l’amica di sempre, Viera, e per l’ambientazione di una parte del romanzo che riesce a raccontare attraverso uno sguardo autentico i significati dell’oppressione comunista (Karšaiová è nata nel 1978) e la divisione della Cecoslovacchia in due parti, apparentemente indolore (da qui il “velluto” del titolo) ma in realtà, come la cronaca tristemente ci ricorda, tutt’altro che semplice. Nelle vicende raccontate del romanzo fa irruzione la lingua altra l’italiano, lingua della scrittura, una nuova lingua che rappresenta anche la ricerca e la scoperta di un luogo altro, fisico e metaforico. Raccontando del suo percorso non semplice con la lingua italiana, Karšaiová cita il nome di Agota Kristof, altra scrittrice che troverà nella lingua francese una nuova e dolorosa identità, un riferimento che fa comprendere bene come l’appropriarsi di una nuova lingua, e quindi anche la scrittura del romanzo, si tinga di una forte carica liberatoria, uno strumento prezioso in grado di donare un’altra vista: «il modo in cui si osserva il mondo è determinato totalmente o in parte dalla struttura della propria lingua madre».
Andrea De Spirt, Ogni creatura è un’isola, Il Saggiatore
A guidare Ogni creatura un’isola è la ricerca della verità. Il protagonista decide di partire per una remota isola greca dove forse potrà trovare il segreto della scomparsa, avvenuta qualche anno prima, di F., il fratello morto tragicamente, forse suicida. Per questo porta con sé, in un viaggio iniziatico che è anche cancellazione o comunque rimodulamento degli orizzonti che evoca la parola “paura”, il quaderno di F., che potrà funzionare come segnavia per provare a conoscere ciò che è accaduto, anche considerato che sull’isola nessuno gli è di grande aiuto, ma che diventerà anche motivo stesso del viaggio nel tentativo di completare un quadro bruscamente interrotto («Sono partito per finire il tuo libro»). Strutturato in circa cinquecento brevi prose che provano quindi a ricostruire in maniera frammentaria e incerta, l’unica modalità che forse ci è data davvero per conoscere il mondo («è stato bello cercarti. Bisognerebbe sempre cercare. Continuare a cercare. E poi basta» oppure, poco dopo, «Lasciami ricominciare (un’altra volta) perché io non so finire. Ecco quello che non so fare. Come le navi non sanno arrivare, io scrivo perché non so finire»), il vuoto lasciato dal fratello, le annotazioni che compongono Ogni creatura è un’isola vanno in realtà a comporre il quadro dell’esistenza del protagonista che, con l’avanzare della scrittura di questi appunti, sembra rintracciare un valore salvifico nella scrittura, aprendo la pagina bianca agli avvenimenti della sua vita (il rapporto non semplice con il fratello, la scomparsa del padre, l’incontro sull’isola con una giovane ragazza), con l’idea di costruire una sua biografia, di modellare la sua vita. «Non esistono scrittori viventi» recita uno di questi frammenti e pare risiedere proprio in questa riflessione fulminea la natura della scrittura di questo romanzo dove il protagonista scrive perché ricerca un vuoto, ma per farlo deve trovare il coraggio per immergersi nei luoghi sconosciuti e scomodi dell’esistenza, i luoghi dove stanno i morti.
Enrico Losso, Dove si nascondono le rondini, Garzanti
Gli anni di piombo, con il loro carico ideologico, violento e privo di compromessi, sono un tema che la narrativa italiana negli ultimi anni ha scelto, in maniera più o meno riuscita, come luogo di ambientazione ben caratterizzato. Il rischio di scivolare in un racconto didascalico e troppo incentrato su aspetti storiografici è concreto, ma alcune narrazioni recenti sono state invece in grado di universalizzare il tipo di violenza e scelte forti dei protagonisti in riflessioni più ampie che esulano dal tempo preciso di ambientazione. Tra questi figura l’ottimo Fare fuoco di Daniele Garbuglia (SEM) e anche l’esordio di Enrico Losso, romanzo in cui il tema viene manipolato attraverso la storia di un legame tra una donna brigatista, Irene, e un bambino, Lamberto, che la incontra per caso mentre imbraccia una pistola e mentre lui sta giocando a nascondino. Il loro primo incontro squaderna da subito il tema di Dove si nascondono le rondini, giocato sul contrasto tra l’innocenza e l’incomprensione di un bambino, che comunque nel corso della narrazione si arricchisce di nuove sfaccettature considerata la situazione che si trova ad affrontare con Irene, le idee del padre carabiniere e la conoscenza di ciò che significa “pericolo”, e la scelta di Irene di devolvere completamente la sua vita, anche a costo di sacrificarla, a un ideale su cui è inconsapevolmente lo stesso Lamberto a seminare dei dubbi. L’impianto narrativo, alcune scene e certi dialoghi sembrano fare riferimento a temi già battuti (per esempio, con le ovvie differenze, un’altra immersione del mondo infantile nell’universo violento degli adulti, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino), ma in questo esordio Losso è anche bravo a costruire uno scontro lessicale tra Lamberto e Irene, come a sottolineare che il modo diverso in cui parlano e i soprannomi o i nomi che occupano i loro mondi, sono specchio di una differenza profonda ma che, proprio attraverso una lingua comune, può essere riletta, valutata e, forse, così rimarginarsi.