di Valentina Cabiale
Da archeologa, vedo archeologia ovunque: nelle macchie di caffè sulle pagine dei libri e in quelle, più piccole nere e irregolari, lasciate da un insetto schiacciato quando il libro fu chiuso; nelle strisce d’acqua che corrono sulle strade in pendenza, dopo che è piovuto; nelle code fluide e filate delle nuvole, tracce irripetibili e irreperibili. Anche in certi scrittori mi capita di riconoscere la capacità – la presunzione? – dell’archeologo di saltare noncurante da pochi deformati incerti resti materiali a tutta una ricostruzione del passato, delle persone, dei gesti e delle azioni. Scrittori che parlano di archeologia anche senza saperlo, utilizzano terminologie, teorie, immagini, metafore “archeologiche”; o che con l’archeologia giocano, facendo spesso il salto opposto: dall’uomo contemporaneo o futuro, vestito dalla testa ai piedi, con la carne ancora bene attaccata alle ossa, ai pochi sparuti oggetti che ne rimarranno; alle cataste di immondizia e di rovine che si lascerà dietro. L’archeologia degli scrittori è utile per mostrare che cosa la disciplina potrebbe essere, al di là della definizione più tradizionale (lo studio delle civiltà del passato) che giustifica chi fa ricerca in qualche modo lontano e al riparo dalla società, ma è meno adeguata per chi l’archeologia vorrebbe calarla nel contemporaneo, nel novero delle scienze sociali, nel gioco del mondo. Umberto Eco è uno di questi scrittori. Certo, è facile: data la mole della sua produzione saggistico-letteraria e la vastità degli interessi, chiunque potrebbe trovare delle affinità con lui. Attraverso una scelta molto discrezionale dei suoi scritti – una sorta di saccheggio – proveremo a ragionare sul concetto di reperto archeologico: ovvero sulle “cose” che l’archeologo trova, generalmente sottoterra, e dalle quali tenta di risalire alle donne e agli uomini che le hanno prodotte, utilizzate, scartate.
In anni diversi, a distanza di tempo, lo scrittore alessandrino ha scritto dei brevi racconti di fantantiquariato (“ricostruzioni del passato”, le definisce nella nota di prefazione al Secondo diario minimo) in cui immagina che un popolo marziano del futuro trovi sulla Terra dei resti materiali degli umani ormai estinti e a partire da essi ricostruisca la civiltà perduta degli antichi terrestri. Nel racconto Frammenti (Diario minimo), al IV Congresso Intergalattico di Studi Archeologici, duemila anni dopo la grande Esplosione che ha cancellato la vita sulla Terra, viene presentato un eccezionale ritrovamento, avvenuto in una zona impervia dell’Italia, a tremila metri di profondità: un libretto “quasi illeggibile ma ancora ricco di folgoranti rivelazioni”, intitolato Ritmi e canzoni d’oggi. Gli archeologi marziani interpretano i testi di grandi classici della musica leggera come l’apice della poesia terrestre, testimonianze della grandezza spirituale e intellettuale degli uomini di un tempo ma anche della coscienza della dissoluzione dei valori in atto, del presentimento della fine. In un analogo malinteso incappano gli extra-terresti del racconto Prima dell’estinzione (La memoria vegetale) dove la civiltà umana, estinta nel 2020, viene ricostruita sulla base dei contenuti di internet captati nello spazio dopo la distruzione del pianeta. In queste storie l’interpretazione marziana è sempre fallace e grottesca. Gli archeologi del futuro non si rendono conto che quello che hanno trovato è un niente in confronto alla quantità immensa delle cose che non conoscono. Il dato materiale in sé è carente e segno insufficiente del mondo che l’ha prodotto ed espresso; ma è soprattutto la capacità di interpretare e di intendere quei dati ad essere limitata, e sulla quale cade l’ironia dello scrittore. In diversi suoi saggi (I limiti dell’interpretazione; Kant e l’ornitorinco) il concetto dei limiti dell’interpretazione è collegato con il fatto che noi spesso non sappiamo esattamente cosa stiamo interpretando; l’oggetto è misterioso, equivoco, mutante. In ambito archeologico il tema è quello della distanza tra il reperto archeologico (una categoria variegata, che comprende la rovina monumentale, lo scheletro di una tomba, la moneta, il coccio, la maschera d’oro di Tutankhamon…) e l’oggetto che quel reperto è stato.
Ma come funziona l’interpretazione? L’oggetto di cui noi cerchiamo di comprendere il significato può trasmettere un messaggio intenzionale (generalmente, ad esempio, tale è un’opera d’arte) oppure casuale, come è il caso dei reperti archeologici più consueti: i cocci di una pentola che si è rotta ed è stata buttata secoli fa.
Scrive Eco ne I limiti dell’interpretazione: “l’interpretazione è il meccanismo semiosico che spiega non solo il nostro rapporto con messaggi elaborati intenzionalmente da altri esseri umani, ma ogni forma di interazione dell’uomo (e forse degli animali) con il mondo circostante. È attraverso processi di interpretazione che noi cognitivamente costruiamo mondi, attuali e possibili”. La semiotica, ambito di studio privilegiato di Eco, è la disciplina che studia i segni. Anche quelli casuali. È proprio interpretando, cioè leggendo i segni, che noi costruiamo e immaginiamo il mondo, quello attuale e i possibili (tra i quali facilmente potremmo includere i mondi passati, antichi). L’interpretazione continua del mondo ci permette di riconoscere ogni giorno un cavallo e un cane, ritrovare la strada per casa, ecc. Ma fino a dove è lecito interpretare – tanto più chi e cosa non ha chiesto di essere interpretato – ? Dove si smette di essere fedeli all’opera? Quando l’interpretazione finisce sopra le righe? Eco ha dedicato molti scritti al rapporto libero e imprevedibile, oscillante e in instabile equilibrio, tra opera (arte, letteratura, musica) e interprete.
Un reperto archeologico generalmente è qualcosa di molto diverso da un’opera d’arte: non è intero, non è stato fatto per essere letto, guardato; è un resto casuale, un impiccio, uno scarto, un ritrovato per caso. Ne è da tutti ammessa la ricostruzione formale (un piatto ricostruito a partire da un orlo) e quella relativa all’identità funzionale (e non solo) attraverso il riconoscimento delle somiglianze con altri oggetti simili (da un punto di vista materiale, di produzione, estetico); invece, un’interpretazione del reperto come ‘segno’ di qualcos’altro può apparire posticcia, eccessiva, fuori luogo. Diverso sarebbe il caso, naturalmente, se gli uomini del passato avessero vissuto sapendo che cosa di loro sarebbe restato. Proviamo a pensarci: come vivremmo se sapessimo che gli archeologi del futuro ci ritroveranno? Generalmente si associa la memoria ad altro piuttosto che agli oggetti quotidiani. Pensando ai posteri scriviamo un libro, magari. Facciamo apporre una targa. Confidiamo nel buon ricordo dei figli o di chi abbiamo conosciuto. Teniamo un diario, conserviamo la minuta delle lettere (decisamente anacronistico, ora). Ma non pensiamo che l’unico resto materiale che alla lunga potrebbe rimanere di noi sarà, ad esempio, il manico di una forchetta. Il bordo superiore della tazza che usiamo più spesso a colazione. Il gancio di un orecchino. Un bullone di una delle automobili che abbiamo guidato. Insomma, nell’interpretare un oggetto, di fondamentale importanza è la visione del futuro, e dell’identità individuale, che ad esso è stata associata.
Il nodo dell’interpretazione in archeologia è fondamentale proprio perché la maggior parte dei reperti, delle cose, delle pietre non trasmettono messaggi intenzionali, non parlano – anche e soprattutto agli archeologi. Gli specialisti della materia si sono dati battaglia nella seconda metà del XX secolo, seguendo correnti di pensiero diverse: da chi (semplifico) riteneva che dai reperti non si potesse per nulla risalire al pensiero dell’individuo a chi al contrario cercava e pensava di trovare proprio nella materialità il riflesso delle idee e della simbologia. Ma a questo punto, ritornando ad Eco, per capirci qualcosa dovremmo seguire un corso di “Archeologia degli Istituti Archeologici”, una delle materie che – insieme ad altre quali “Letteratura sumera contemporanea” e “Storia dell’agricoltura nel Giurassico” – egli ipotizzava nel progetto di una fantomatica facoltà universitaria di “irrilevanza comparata” (il progetto complessivo era quello della Cacopedia, Secondo diario minimo, ovvero una “recensione totale dell’antisapere”). Insomma, si tratta di questioni meta-archeologiche che non è qui il caso di approfondire. Secondo la teoria dei segni (Segno), noi viviamo in un reticolo di sistemi di segni necessari per vivere, per interagire con gli altri, per esprimere emozioni e comunicare. I segni riguardano tutte le società, quelle urbanizzate e industrializzate come quelle rurali. “Se fosse cacciatore, – scrive Eco nella premessa a Segno, usando un personaggio di nome Sigma, – un’orma sul terreno, un ciuffo di peli lasciato su un ramo spinoso, una qualsiasi traccia infinitesimale, gli rivelerebbero quale selvaggina è passata di lì, e persino quando… Insomma Sigma, anche immerso nella natura, vivrebbe in un mondo di segni”. Segni che sono quindi culturali, anche quando derivano dalla lettura di fenomeni naturali. L’interpretazione di uno scavo archeologico è esattamente questo: la lettura di segni culturali e naturali intrecciati insieme. Chi non sa come immaginarsi una superficie archeologica, pensi a un dipinto astratto, un Kandinsky ad esempio, con colori un po’ più spenti. Di ogni contorno chiuso (uno strato, un muro, un mucchio di mattoni, una distesa di anfore) si cerca una spiegazione: come si è formato, quando, perché ha quell’aspetto, in un’analisi che ha certamente del paranoico ma al momento sembra il metodo più attendibile per interpretare, appunto, i segni che gli uomini del passato hanno lasciato sulla superficie della terra – per lo più senza alcuna intenzione e pensando ai posteri in altri modi, cioè scrivendo libri e sperando nella riconoscenza dei figli.
A complicare ulteriormente la questione, ci si può porre un’ulteriore domanda: chi è che interpreta? C’è lo studioso (storico dell’arte, critico letterario, musicale, archeologo) ma c’è anche la persona comune, che nella vita fa un altro mestiere. Si potrebbe dire, semplificando (l’archeologo spesso è un po’ snob), che l’interpretazione di un non-esperto rientra nell’ambito della fruibilità ed è più emotiva che intellettiva. Eco approfondisce queste questioni, pensando soprattutto all’opera d’arte e letteraria, nel saggio Il problema dell’opera aperta: “l’oggetto viene fruito da una pluralità di fruitori ciascuno dei quali porterà nell’atto di fruizione le proprie caratteristiche psicologiche e fisiologiche, la propria formazione ambientale e culturale, quelle specificazioni della sensibilità che le contingenze immediate e la situazione storica comportano; quindi, per onesto e totale che sia l’impegno di fedeltà all’opera da fruirsi, ogni fruizione sarà inevitabilmente personale e renderà l’opera in uno dei suoi aspetti possibili”. È in questo senso che lo scrittore parla di ‘opera aperta’ e aggiunge che “il salvare questa dialettica di «definitezza» e «apertura» ci pare essenziale ad una nozione di arte come fatto comunicativo e dialogo interpersonale”. La sua riflessione è partita dall’apparizione di opere indefinite da un punto di vista produttivo, cioè che si presentano non completamente prodotte o ultimate, per cui la prima fruizione consiste proprio nel completarle. Gli esempi che riporta si situano soprattutto in ambito architettonico e musicale (ma anche nel design industriale, si pensi ad esempio a vari complementi d’arredo come le librerie variamente componibili, dove a chi compra non è offerto un prodotto unico e già pronto), ma questi fenomeni (la tendenza all’apertura dell’opera) pongono interrogativi teorici anche in altri contesti. Il nuovo rapporto tra oggetto e spettatore/fruitore comporta un coinvolgimento attivo ed emotivo di chi guarda, non più puramente contemplativo e di ricezione – tutte questioni che hanno molto a che vedere con un tema in voga negli ultimi anni come quello dell’accessibilità museale.
Molto «archeologico» è il discorso del «completare l’opera», perché uno dei compiti che ci si aspetta da un archeologo è proprio la ricostruzione: di un reperto, di un manufatto architettonico, di un contesto. Ricostruire (oggi più virtualmente che materialmente) quello che manca. In ambito artistico si può fare archeologia di riflesso anche pensando alla poetica del ready made di origine dadaista e surrealista: cioè a cosa succede se si prende un oggetto comune (una bottiglia, un sellino di bicicletta, un water) e lo si espone, isolato o con altri, fuori dal proprio contesto, che è quel che capita generalmente a un reperto archeologico in un museo. Molte delle collezioni museali funzionano in effetti come un gigantesco ready made, un accumulo piuttosto incongruo – e talvolta irritante – di oggetti. Un viaggiatore spaziale (una figura che spesso svolge per Eco il ruolo dell’altro, della nostra controparte che ci guarda e giudica, e ci ricostruisce) “si domanderebbe perché al Louvre siano radunati ammenicoli d’uso comune come vasi, piatti o saliere, icone di divinità come la Venere di Milo, rappresentazioni di paesaggi, ritratti di persone normali, residui tombali, mummie comprese, rappresentazioni di creature mostruose, oggetti di culto, immagini di esseri umani sottoposti a supplizio, resoconti di battaglie, nudi atti a suscitare attrazione sessuale e addirittura reperti architettonici” (Vertigine della lista). L’oggetto trasposto in un altro contesto diventa nuovo, assume un diverso significato. Isolare brandelli di realtà, o “reperti archeologici della contemporaneità”, significa pietrificare delle cose che vediamo e usiamo tutti i giorni senza renderci conto che ai nostri occhi funzionano come feticci. Ma, anche, ci permette di guardarle in altro modo, più disincantato, forse più felice. Quanto spazio libero lasciare all’interpretazione fruitiva, a quella cioè della persona comune? Se pensassimo che essa dovrebbe avere più spazio, provocatoriamente si potrebbe dire – parafrasando quanto Eco ha scritto riguardo all’ ‘autore’ – che l’archeologo dovrebbe morire dopo aver scavato, per non disturbare il cammino del reperto (“L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo”, postille a Il nome della rosa).
Reperto che, peraltro, può anche essere contraffatto; e forse non è sempre originale come sembra. La questione dell’autentico e originale compare ad esempio nei saggi di Dalla periferia dell’impero. Il reperto archeologico rientra in quelli che Eco definisce “oggetti unici con tratti irriproducibili”, di complessità formale e materiale tale da non poter essere riprodotti completamente; inoltre, sono oggetti nei quali assume valenza fondamentale la “priorità temporale”. Lo scrittore fa l’esempio di un dipinto ad olio, o di una scultura: quest’ultima generalmente può essere riprodotta con tutti i caratteri dell’originale, ma ovviamente alla copia mancherà la priorità temporale; e conclude: “In questi casi si dice che il feticismo artistico prevale sul gusto estetico”. È interessante anche la sua definizione di alterazione dell’originale, nella quale possono essere fatti rientrare il restauro, la perdita di arti delle statue, i colori che sbiadiscono, nonché anche il sogno di un’arte greca bianca, priva dei colori vivaci che invece sappiamo avevano. Nel momento in cui un oggetto viene restaurato o integrato, è ancora originale? E, per contro, se un’opera ha perso delle parti, cioè non è più integra (l’orlo della pentola), è davvero un originale? Da una parte c’è l’integrità estetica, dall’altra la “genuinità archeologica”, cioè il fatto che quell’opera è generalmente ritenuta ancora originale purché il suo supporto materiale, o parte di esso, sia rimasto lo stesso attraverso gli anni. Il nodo tra estetica e archeologia è in realtà inestricabile. Pensiamo alla Venere di Milo: ci appare così bella, senza braccia, che è difficile dire come reagiremmo se le braccia fossero ritrovate e qualcuno le riattaccasse.
Il rischio, è chiaro, è di uscirne matti. La lettura di Eco rende evidente quanto sia complicato e privo di salde basi teoriche il lavoro dell’archeologo; quindi, se quest’ultimo vuole continuare a classificare le macchie di caffè mantenendo una certa tranquillità d’animo, forse gli conviene leggere altri scritti meno provocatori – almeno in apparenza – e che hanno come tema la memoria. Il protagonista de La misteriosa fiamma della regina Loana, colpito da un ictus, perde completamente la memoria personale o episodica, ovvero quella relativa alla propria esistenza; per ritrovarla, con la moglie (che ovviamente lui non riconosce) va nella casa d’infanzia tra Langhe e Monferrato, dove sono conservati tutti i ricordi materiali della sua giovinezza (quaderni, dischi, fumetti, …). Il romanzo è un anti-Proust, come l’ha definito Eco in una intervista, nel senso che la ricostruzione della memoria viene fatta sugli oggetti esterni e non su ricordi interni, ed è un altro esempio dell’interesse e della curiosità dello scrittore nei confronti della materialità. La memoria a volte è debole, a volte è in eccesso. Il passato aiuta a definirci – per questo sprechiamo tanto tempo ed energie per recuperarlo – ma nel contempo troppo passato ci ricatta, ci opprime. Non a caso le avanguardie (come il futurismo) hanno sempre cercato di eliminarlo, farlo a pezzi, andando però, alla fine, a impaludarsi in un punto oltre al quale non è possibile procedere. La soluzione potrebbe stare nel mantenere uno spazio per l’ironia, per la rivisitazione non per forza seria, e nell’ “opera aperta”; “reperto aperto” non si può sentire, “archeologia aperta” neppure; “passato aperto”, magari; ma insomma: visto che non lo si può eliminare, forse si può continuare a raccontare il passato cercando nuovi modi per dire sempre le stesse cose – esattamente come si fa con l’amore.