Intervista ad Alan Pauls di Camilla Valletti
Il personaggio di Savoy sembra catapultato dai classici dell’Ottocento. Ha il profilo di un Oblomov che mette radici dentro al suo universo mentale, non cambia appartamento ma spulcia gli annunci degli affitti. Come ha costruito questa figura, da dove arriva il suo immobilismo? È di matrice culturale o nasce per un movimento interno al romanzo?
Mi piace il riferimento a Oblomov, anche se non penso di condividerlo del tutto. Oblomov è un apatico radicale, ma un apatico che gode immensamente della sua apatia. Il problema di Savoy, invece, è fare un passo, muoversi, agire. Tale paralisi è il contrario della voluttuosità oblomoviana, perché si accompagna a una vera e propria ipercinesi mentale. Nell’impossibilità di agire, Savoy si mette a pensare, specula, architetta ogni genere di ipotesi, analizza, calcola, ragiona. È come se l’impotenza (fisica) fosse al tempo stesso una specie di superpotenza (mentale). In tal senso, il “modello” di Savoy sarebbe piuttosto il signor Jefferies, protagonista di La finestra sul cortile di Hitchcock, un fotografo “d’azione” che, messo fuori gioco da un incidente occorsogli mentre seguiva una gara automobilistica, risolve un delitto avvenuto nel proprio edificio senza muoversi dalla sedia a rotelle, con l’aiuto della sua macchina fotografica e di Grace Kelly, intrepida fidanzata. Temo che i miei personaggi (maschili) abbiano tutti la tendenza a essere un po’ così, incapaci e insieme superdotati. Come gran parte degli eroi del romanzo del XX secolo.
Carla è una donna straordinariamente a suo agio nel mondo, nei vestiti che indossa, dentro alle case che è chiamata a sorvegliare come house sitter. È il femminino, il movimento, colei che innesca la storia. Ha tutte le caratteristiche della femme fatale dell’era digitale. Da dove è nata l’idea di accostare due figure così lontane nel tempo e nello spazio?
Le femmes fatales – per lo meno come le conoscevamo finora, da Mata Hari alla Vedova Nera, passando per la Gilda di Rita Hayworth – in genere volevano ottenere qualcosa dagli uomini, e per farlo tessevano una serie di ragnatele sofisticate che quegli idioti di uomini scambiavano per desiderio o amore. In questo senso Carla dovrebbe essere una femme post-fatale: una in grado di far innamorare un uomo per il solo fatto di essere com’è, senza voler nulla da lui. Il problema che ha Savoy con Carla è di non riuscire a capire su cosa la ragazza investa il proprio desiderio – oltre agli oggetti, alle case, agli animali domestici, alle piante da interni di cui si prende cura nella sua vita di house sitter. Niente e nessuno sembra riuscire ad ancorarla in un luogo. Tantomeno Savoy. Carla è una donna di quest’epoca, una specie di arcicontemporanea che si muove come un pesce nell’acqua nella fugacità, precarietà, intermittenza, nella fluidità superficiale (nel senso letterale, non morale, della parola) del presente, tutte esperienze, queste, che fanno invece impazzire Savoy, superstite (non per molto) del mondo della profondità e del sospetto. Savoy e Carla sono le due tessere dispari di un tutto impossibile. Ma se il romanzo dovesse sottoscrivere una tesi, sarebbe questa: che in amore le “metà” sono sempre imperfette, irregolari, mal assortite e che la completezza non è altro che una superstizione platonica del libero mercato.
Quanto ha giocato nella formulazione del romanzo l’esperienza della reclusione e della relativa compulsione alla connessione forzata?
Nessun peso. O tutto il peso possibile, ma retroattivo: tanto per cominciare, ho finito di scrivere il romanzo nel marzo 2020, quando il coronavirus era ancora un danno collaterale delle deficienze igieniche di certe bancarelle che vendono zuppa in un mercato di Wuhan. Come qualunque libro o film o canzone prodotti da allora sino a oggi, il mio libro, riletto alla luce della pandemia, appare profetico o documentale. Tuttavia, le problematiche di cui tratta – l’amore a distanza, gli equivoci della comunicazione digitale, la tirannia del profilo virtuale, l’ansia come sindrome quotidiana e forma di vita, l’illusione (creata dalla tecnologia) che siamo sempre contemporanei gli uni agli altri – erano già fra di noi e a livello critico prima che il virus cominciasse a girare il mondo. L’emergenza coronavirus non le ha create, al massimo le ha estremizzate e, soprattutto, le ha rese obbligatorie. E subito dopo avercele imposte, ci siamo accorti che forse non erano così meravigliose e “naturali” come pensavamo.
Il loro è un amore composto di segni, di telecamere accese e appuntamenti disattesi. Quali nuove forme può assumere l’erotismo in un contesto così segnato dall’invasione tecnologica?
Al di là di una lettera un po’ sopra le righe o una mail vagamente maliziosa, sono un soggetto erotico analogico, perciò non posso parlare se non per sentito dire. Mi pare che qualcosa del “nuovo ordine amoroso” patrocinato dal digitale, possa trovarsi, ad esempio, nel repertorio di comportamenti, valori e “soluzioni” nati con Grinder, Tinder, OKCupid e tutte le analoghe applicazioni di incontro: ottimizzazione dell’accesso, eliminazione di perdite di tempo e ostacoli, controllo qualità a priori, funzionalità, soddisfazione più o meno garantita, ecc. Nulla impedisce che un dito assuefatto al click possa far nascere una storia d’amore favolosa, ma per adesso l’amore tende ad assomigliare a un servizio clienti.
Nel suo romanzo ci sono molte città, Buenos Aires, Parigi, Berlino. Quanto ha pesato nella sua scrittura il rapporto con la vecchia Europa?
A conti fatti, l’unica città in carne e ossa del romanzo è Buenos Aires. Tutto succede già fra il gps di Google Maps e la vecchia guida stradale cartacea che Savoy tiene nel cruscotto dell’auto, ma è lì che Carla e Savoy si incontrano e vivono il mitico mese di reclusione amorosa su cui Savoy costruirà le proprie elucubrazioni da ruminante. Le altre città (che Carla visita come home sitter e Savoy intravede esclusivamente nello schermo del suo computer, via Skype) sono luoghi fittizi, simulatori di città, punti su una mappa inconsistente e fantastica, e sono perfettamente intercambiabili. Quanto a Berlino, protagonista di un capitolo del libro, l’unico scritto in prima persona, è forse la città più immaginaria di tutte. È la città dove Savoy, mettendo insieme le forze che gli rimangono, decide di recarsi in cerca di Carla quando sente che la distanza lo sta facendo uscire di senno. Ma ciò che vediamo di Berlino, è lo stesso che vedremmo se assistessimo a una sessione di realtà virtuale inscenata da un altro: qualcuno che si ritrovasse completamente solo a tu per tu con le immagini criptate dentro quella sorta di casco e maschera che gli nasconde il volto.
A romanzo chiuso, si avverte la sensazione che tutto sia frutto della pulsione visionaria di Savoy. I contorni si sfaldano in una ultima resa al disfacimento della carne. Ma è davvero così? Fino a che punto la sorpresa del lettore conta nell’interpretazione di questa relazione?
Capisco l’inquietudine e condivido la diagnosi su Savoy, ma non sono nessuno per dire come stiano “realmente” le cose. Se qualcosa la vita ha imparato dai romanzi, è che ciò che chiamiamo “realtà”, come se fosse una sola, e come se si opponesse a un’altra cosa soltanto (illusione, immaginazione, sogno, delirio, ecc.) è una strana millefoglie di mondi che operano in modo simultaneo e con autonoma frequenza, in diversi registri, con ritmi e colori e libretto e personaggi propri, molto spesso contradittori, dove le cose possono essere e non essere al tempo stesso, o essere state ed essere ancora e prepararsi a convergere in uno stesso punto del tempo, senza che per questo il sistema debba esplodere. È la vita ad avere questa composizione, e anche, soprattutto, ce l’ha l’esperienza di pura finzione che è l’esperienza amorosa, dove la massima realtà coincide spesso con la massima irrealtà e le certezze della ragione sono il lato b delle fantasie più scapestrate.
(traduzione di Vittoria Martinetto)