intervista a cura di Cristina Lanfranco
Spunto per questa conversazione con Marta Ceroni è stara l’uscita per Bompiani del suo libro “L’anatra sposa”. Già finalista al Premio Calvino del 2012, è stato pubblicato solo nove anni più tardi: l’autrice, che vive da anni nel Vermont, ha un importante curriculum scientifico di biologa ed ecologa forestale, ed è codirettrice dell’Academy for Systems Change, dove coordina progetti di educazione al lavoro sociale e alla crescita sostenibile. Si tratta di un retroterra culturale non così usuale per una scrittrice, ma si deve dire che questa attitudine risulta ben integrata con i temi del libro, nel quale il flusso della natura e dei suoi eventi – le esondazioni del fiume, il girare delle stagioni, gli impulsi d’amore – è sempre avvertibile.
Marta, leggendo il tuo libro L’anatra sposa ho sentito da una parte la continuità con una tradizione di descrizione delle piccole realtà di provincia che nella letteratura italiana e anche nella cinematografia ha dato tanti eccellenti risultati. Però ho anche avvertito molto forte il ruolo centrale della natura, intesa non soltanto come ambiente naturale, ma proprio come una forza dolce ma irrefrenabile che prende per mano gli uomini e li fa muovere: e insieme questa forza induce a posare sugli uomini e sulle loro storie uno sguardo più ampio, meno concentrato sul singolo.
Ho cercato di guardare ai personaggi e alla natura umana con uno sguardo diffuso, come quando si entra in una foresta – io abito qui ai confini del bosco, è una sensazione che conosco – e si coglie la totalità dell’ambiente e dei viventi che la popolano, in un incontro senza parole. Ho tentato di mantenere lo stesso sguardo silenzioso, di cogliere i dettagli presenti all’interno però di una entità più grande e complessa. Devo dire che è una sensazione, quella del vagare nel bosco con questo tipo di sguardo, che ho provato anche in altri contesti: ad esempio quando ci si innamora, non si prova qualcosa di simile, come la sensazione di trovarsi nel folto di una foresta? L’innamoramento forse è fatto di questo, sentimenti solo tuoi, che però ti fanno anche sentire immersa in una dimensione più ampia e profonda che non ha bisogno di parole.
Ciò che accade nel libro nasce da piccole creature. In particolare, così diamo conto del titolo del tuo libro, è un’anatra sposa dal meraviglioso piumaggio a dare spinta e vita a ciò che avverrà dopo. L’anatra sposa viene ceduta ad Alda in cambio – diciamo così – della sua disattenzione a ciò che succede una sera, nell’erba, fra il pastore Nazareno e la sorella Nevia, che nella mente è rimasta bambina ma vive con intensità tutte le pulsioni e le gioie del vivere, dal bagno in fiume fino appunto all’amore fugace con Nazareno.
Sì, l’anatra è l’innesco di molte cose. Mi piaceva l’idea di un essere umano che si innamora di un’anatra così rara, e rimane incantata dalla bellezza straordinaria dell’animale, una bellezza maturata durante millenni di evoluzione. Da questo innamoramento nascerà, indirettamente, un bambino, che cambierà molte cose davvero. L’anatra è per me il ciclo della vita e della morte, la presenza che chiude il cerchio all’infinito tra il vivere e il morire: fa concepire Flavio, ma il concepimento di Flavio è concatenato alla morte di Ermanno, ingiustamente sospettato in paese di avere approfittato di Nevia. E l’anatra è presente in entrambi i casi, a chiudere il cerchio.
E come è nata l’idea dell’anatra al centro del tuo romanzo?
Negli ultimi mesi in Italia prima del trasferimento negli USA, oltre a finire il dottorato in Ecologia, facevo la postina e andavo in motorino e in bicicletta per gli argini a portare la posta. Una volta portando la posta a una cascina notai un’anatra bianca sola in una voliera molto stretta. Aveva gli occhi rossi e mi colpì la sua immagine archetipica, museale. Nel tempo quell’immagine si è trasformata e ha preso le sembianze di un’anatra dei posti dove vivo ora, mai addomesticata, ed è diventata un modo per chiedersi cosa vuol dire essere l’unico esemplare di una specie in un luogo che non ti appartiene, cosa vuol dire essere “esotico” in un posto che non ti appartiene e venire esoticizzati/romanticizzati. Quando dico che sono italiana, c’è una certa idea di Italia che illumina gli occhi delle persone, lo vedo dal loro sorriso – mare, arte, buon cibo, mamma – e allora non so più se mi vedono come persona o come incarnazione del loro sogno.
C’è un personaggio nel libro, il muto, che mi fatto venire in mente, una canzone del 1980 di Claudio Lolli, che sono due canzoni in realtà legate fra loro, che sono Il muto e Il Ponte: “Il muto abitava una casa isolata / abbastanza lontano dal paese / in cui non arrivavano i rumori / i suoi muri di gomma tenevano fuori / le campane assordanti delle chiese”. La canzone mi ha fatto venire in mente, in realtà, più la Signora del muto apicultore: lei, la madre di Nevia e Alda, ha smesso il suo lavoro di cantante, è come se in un certo senso un mutismo l’avesse colta, vive scostata dal resto del paese, un paese di fiume proprio come nella canzone di Lolli ed è insensibile ai richiami e alle aspettative del paese rispetto a ciò che dovrebbe essere come donna, come madre e come cattolica. Ma un ponte arriva poi per il muto di Lolli (“E viveva da solo nel paese sul fiume / con i capelli bianchi sparsi sulla fronte / senza dire mai niente, senza amare nessuno / fino a che costruirono, fino a che costruirono il ponte”) e anche per la Signora, direi: il suo ponte verso il mondo non è forse questo bimbo che arriva all’improvviso?
Bello ripensare e riascoltare Claudio Lolli dopo tanto tempo, in effetti potrebbe essere una bell’accompagnamento sonoro a una storia che è ambientata solo pochi anni prima dell’uscita di questa canzone. Sì, il bimbo che nasce da Nevia, Flavio, è per la Signora il ponte verso il mondo, un percorso di riscoperta di sé che parte dal filo viscerale della maternità, quella di sua figlia in questo caso, per poi svilupparsi in altre dimensioni della sua consapevolezza.
Una cosa che ha colpito è la mancanza di scandalo con il quale questo bimbo senza un padre arriva alla luce. Ho subito pensato a cosa succederebbe nella realtà; se oggi una ragazza con un handicap psichico pesante – oggi credo che la definirebbero una autistica non verbale – venisse messa incinta da un pastore di passaggio finirebbero tutti prima in cronaca e poi in tribunale. Nevia è felice di far l’amore con Nazareno: questo suo “consenso” nella nostra società non troverebbe alcun riconoscimento, non sarebbe mai legittimo. Sbaglio o leggo in questo romanzo una rinuncia al giudicare e al condannare?
Sì, volevo creare esperienze e circostanze di naturalità nei comportamenti umani, in sintonia con la natura. Nazareno e Nevia provano una attrazione pura, c’è qualcosa di molto innocente in questo. Nevia non è condizionata dalle norme sociali patriarcali, che storicamente hanno messo le donne nella società occidentale nella posizione di “oggetto” anziché “soggetto” dell’interazione amorosa (per esempio e’ ancora molto comune negli USA che sia l’uomo a chiedere – con rituali spesso complicati – alla donna di sposarlo). Il giudizio e la condanna sono presenti nelle relazioni interne al paese, in particolare per qualunque cosa o chiunque si distacchi dal consueto, sono meccanismi di autoconservazione culturale, meccanismi che rafforzano un gruppo a scapito di un altro. Ho cercato però per la voce narrante un altro registro, che fosse vicina ai personaggi ma non si identificasse interamente con loro, cosi’ da potermi permettere l’empatia che provavo in effetti per tutti loro.
Il suicidio di Ermanno nasce da un sentimento di vergogna così forte da impedirgli di difendersi…
Sì, ho voluto sottolineare la forza distruttiva che nasce dal pettegolezzo e dalla vergogna. Il senso di vergogna può diventare tossico, se instillato in persone che non sanno come affrontarlo. Questo sentimento, così conosciuto e forte specie in culture cattoliche, non viene spesso esplorato, ed è legato a una fragilità interiore: ne viene anche l’incapacità di difendersi e reagire. Ermanno non si difende da una accusa vergognosa perché già prova una insopportabile vergogna nel doversi difendere. Trovo che il tema della vergogna sia poco esplorato, eppure è un sentimento importante nelle nostre vite, e assolutamente potente.
Le tue figure femminili hanno un ruolo centrale nel libro per la capacità di cambiare e di saper affrontare l’imprevisto.
Sì, e hanno la capacità di portare le cose al meglio. Da un evento nascono nel libro tante conseguenze impreviste, e da lì nasce una nuova consapevolezza: anche in osteria, fra uomini, a un certo punto si smettono le chiacchiere e si diventa tristi, si riflette. Nel gruppo di donne gli eventi mettono in luce i rapporti fra loro, la loro solidarietà e la loro capacità di tessere rapporti.
Questo anche quando si devono operare delle scelte, come nel caso della gravidanza di Nevia.
Il romanzo è ambientato a metà degli anni Settanta, gli ultimi anni in cui l’interruzione di gravidanza era ancora illegale. Le donne consultano una mammana, me questa dà a Nevia un rimedio a basa di erbe che non serve affatto ad abortire.. c’è una energia e decisione femminile nel tenere questo bambino. Ho voluto anche trattare l’argomento dell’essere ragazze madri con leggerezza, senza toni drammatici ma esplorando gli elementi di guarigione che possono scaturire da questa dimensione di vita.
È una figura molto particolare questa di Nevia, la cui vitalità non è minimamente intaccata dal suo deficit intellettivo e neppure dalla mancanza di parola.
Sì, la sua figura mi accompagnava da tanto tempo, e nasce in parte dal ricordo di una ragazza che viveva accanto a noi quando ero bambina: una ragazza appunto un po’ particolare, della quale i ragazzini del posto coglievano l’essere diversa. Così per farle uno scherzo l’avevano convinta che ci fosse un ragazzo innamorato di lei, organizzandole un falso appuntamento, al quale lei si era presentata tutta ben vestita.. uno scherzo tremendo se ci pensi. Un po’ di lei è passata nella figura di Nevia. Così è anche per altri personaggi del libro, sui quali ho lavorato tentando di connetterli fra loro, senza l’idea di ricomporre un paesaggio idilliaco ma restituendo un senso di appartenenza collettiva.
Alda, la sorella di Nevia, è la figura destinata a volare via, come la sua anatra in fondo, no?
Dici bene, “destinata”. Alda appartiene a una famiglia di “diverse”, non hanno mai fatto veramente parte de loro ambiente di nascita. C’è già lì, nel non appartenere, il seme dell’andarsene. Alda per di più sfugge già dal principio alla famiglia e alla scuola.
Hai anche scelto di far scoprire l’amore ad Alda attraverso una ragazza, quindi in un modo meno comune: anche qui la naturalezza (come nel caso della nascita di Flavio) di Alda nell’innamorarsi di Alessandra, e il fatto che con la stessa naturalezza Alda lasci il paese il giorno dopo, come se questo amore nuovo invitasse alla partenza. Un amore che aiuta a crescere.
Ad Alessandra preme che Alda faccia una scelta autentica, quindi sì, un amore che aiuta a crescere! Credo che l’attrazione tra le due sia palpabile ma mai messa a fuoco, per riflettere la nebulosità di quelle prime esperienze amorose al di la’ della visione binaria dei generi e delle relazioni amorose.
Sin dalle prime pagine mi ha colpito la prosa matura e fluida, un’armonia di scrittura che mi pare sia al servizio di un intreccio molto equilibrato, che lascia il giusto spazio e respiro a ogni attore e insieme conserva uno sguardo allargato sulla piccola comunità. Per questo volevo chiederti come hai esercitato e affinato la tua scrittura. Riflettendo poi sul fatto che hai pubblicato la tua opera dopo anni dalla tua partecipazione al Premio Calvino, mi chiedevo se anche se negli anni tu sia tornata su L’anatra sposa, con un lavoro di riscrittura, o modificando il testo o la struttura del libro.
Ho solo scritto tanti diari a partire dai miei dieci anni.. la mia scuola di scrittura è stata quella. Quando poi sono arrivata negli Stati Uniti, ho vissuto per un po’ nel Maryland, in un ambiente di classe media cui mi sentivo completamente estranea. Ho iniziato a scrivere come risposta alla solitudine che provavo. Scrivevo senza urgenza, per me. Quando però si è presentata la possibilità di partecipare al Premio Calvino, allora il mio lavoro ha trovato un nuovo respiro. L’avere una scadenza temporale mi ha spinto a scrivere con continuità, direi che il Calvino ha rappresentato per me la luce del faro che ti indica la direzione, ad anche una fonte felice di stimoli e di invito all’analisi del mio lavoro di scrittura. Dopo l’avventura del Calvino, avevo spedito il libro ad alcune piccole case editrici: era un periodo però di crisi generalizzata per queste piccole realtà, e non siamo arrivati alla pubblicazione. Avevo in seguito chiesto un parere a un agente, che aveva suggerito di rivolgermi a case editrici più grandi. Sono così entrata in contatto con la Bompiani e lì ho conosciuto Giulia Ichino, la quale ha intravisto l’esatto spirito del romanzo. Editor illuminata, mi ha accompagnato con piccoli suggerimenti lasciati cadere come per caso, dieci minuti di conversazione una volta, altri dieci minuti dopo mesi… così, come una specie di omeopatia letteraria. Giulia mi ha invitato ad approfondire alcuni personaggi sui quali a suo parere avevo gettato una insufficiente luce: ricordo che mi aveva bonariamente rimproverato di abbandonare qualcuno dei miei personaggi per la strada…
Ho notato una certa tua generosità di scrittura, nel senso che nelle tue pagine ho trovato, collaterali alla trama centrale, il racconto di piccoli eventi che ben si sarebbero potuti utilizzare per un racconto autonomo, e che tu invece hai regalato al romanzo.
E in realtà, di questi racconti dentro il racconto, solo alcuni ho tenuto, mentre c’è stato un lavoro come di sfilamento dal romanzo di alcuni temi e personaggi. La prima stesura era molto più corale: con le osservazioni di Giulia Ichino ha iniziato a prendere forma un mio romanzo più attento ad alcune individualità, come ad esempio Alda, che nella prima stesura restava più sullo sfondo. Invece ad esempio per il personaggio della Nene, preoccupata e contrariata dall’apertura di una cava accanto al paese, era all’inizio più tagliata sull’immagine di una specie di attivista che si batte contro lo sfruttamento del territorio circostante. Ho limato questi caratteri, sia perché secondo me un approccio così diretto e ideologico crea quasi sempre una specie di insofferenza e rigetto in chi legge, sia perché desideravo che la natura parlasse da sé. Diciamo che c’è stata generosità sia nel mettere che nel togliere. Non avevo la fretta di pubblicare.
Non è complicato tornare per anni su un testo che come autrice vedi nel tempo con occhi diversi, e decidere su cosa intervenire?
Sì, è complicato mantenere la coerenza narrativa di un testo su cui torni e torni più volte, mentre magari il tempo e gli eventi esterni cambiano la tua sensibilità. Lo sguardo di Giulia Ichino è stata importante per stabilire ciò che desideravo diverso all’interno del testo, e per farmi riflettere su cosa ci fosse nel romanzo che ancora mi emozionava. L’incontro fra Alda e Alessandra viene da lì, perché sentivo che il mio personaggio aspettava questo. In quel periodo, per caso e con grande felicità, avevo ritrovato un’amica che avevo perso di vista per tanti anni, il romanzo e la vita dunque avevano una specie di somiglianza.. in questo senso il romanzo era vivo per me.
Sul numero di settembre potete leggere la recensione a L’anatra sposa di Marta Ceroni.