Eroe e traditore
di Beatrice Manetti
Marco Bechis
La solitudine del sovversivo
pp. 348, € 18,
Guanda, Milano 2021
Buenos Aires, 19 aprile 1977: all’uscita della scuola per maestri “Mariano Acosta”, il ventenne Marco Bechis viene sequestrato da una squadra di militari in borghese e imprigionato nei sotterranei del Club Atlético, uno dei campi di concentramento clandestini del regime di Videla. È un sovversivo riluttante: vicino ai Montoneros per lo slancio rivoluzionario, ma critico verso la loro opzione di scontro frontale con lo stato. Ha lasciato Milano e gli studi universitari per tornare in America Latina, che considera un unico paese e soprattutto il suo paese, ma ha in tasca un passaporto italiano – e sarà proprio quello, insieme alle amicizie del padre, un dirigente della Fiat che ha lavorato a lungo tra Cile, Brasile e Argentina, a tirarlo fuori dalla sua cella-tomba di cemento. Buenos Aires, 6 luglio 2010: nel Tribunal Oral Federal di Buenos Aires, dopo uno stillicidio di imputazioni e indulti, vanno a processo i responsabili dei crimini della dittatura. Trent’anni dopo, Bechis può guardare in faccia i suoi aguzzini e rendere la sua testimonianza dicendo per la prima volta “io”. Sono i due momenti chiave di una vita continuamente interpellata dalla domanda del compagno di prigionia che lo aveva accompagnato fuori dal Club Atlético, lungo le scale che portavano in superficie e alla salvezza: “Chi sei? Perché te ne vai? Chi sei?”. Nel primo – il momento della catastrofe – si cristallizza la coscienza di essere un sopravvissuto, destinato ad abitare l’identità ambigua del testimone e il dilemma borgesiano del traditore e dell’eroe: “La mia pelle muta sempre, sono l’eroe e nel contempo il traditore (…). Se io sono qui ancora a parlare, vuol dire che tutti gli altri sono morti”. Nasce da lì, in un certo senso, il Bechis regista di Garage Olimpo (1999) e di Hijos (2001), ma anche di Birdwatchers (2008) e del Rumore della memoria (2015), impegnato a esplorare le forme mutevoli e simili della violenza, che è sempre, ai suoi occhi, violenza politica. Nel secondo – il momento dell’accettazione della propria catastrofe – affiora la coscienza che, oltre l’alternativa tra eroe o traditore, un sopravvissuto è innanzitutto una vittima: “dopo tanti anni vissuti come un usurpatore, come un traditore perché sopravvissuto agli altri, finalmente sono diventato vittima”. E da lì nasce questo libro. Della testimonianza giudiziale, La solitudine del sovversivo ha l’asciuttezza e il rigore doloroso dell’aderenza ai nomi, ai luoghi e ai fatti; dell’autobiografia, la lucidità analitica di uno sguardo retrospettivo che sa sottrarsi tanto all’autoindulgenza quanto all’abiura; del memoir, lo sforzo di mantenersi fedele al groviglio emotivo di un’esperienza della quale va restituita in primo luogo l’oscenità, e che quindi deve essere ri-suscitata senza essere esibita.
Per dire quanto il trauma strutturi intorno a sé un’intera esistenza, Bechis lavora innanzitutto sul montaggio, scartando la linearità cronologica per articolare la sua storia intorno alle due date chiave che ne costituiscono gli estremi piscologici e che danno il titolo alle due parti maggiori del libro (la terza, Trent’anni dopo, è una coda della seconda). Il sequestro e la testimonianza sono i due punti zero a partire dai quali, con una lunga serie di flashback alternati a bruschi ritorni al momento presente, quello che viene prima è ripercorso, riorganizzato, riletto e trova il proprio posto in una trama di rimandi e talvolta di premonizioni.
Nella prima parte, che si configura come un romanzo di formazione individuale e generazionale insieme, affiorano la morte del fratello minore, il “desaparecido” di una storia familiare destinata a esserne irrimediabilmente squilibrata; gli ideali rivoluzionari della giovinezza naufragati, su entrambe le sponde dell’oceano, nella vocazione al suicidio dei gruppi guerriglieri (in Italia anche nell’eroina); la scelta dell’insegnamento elementare nelle regioni povere del nord dell’Argentina come strumento di autentica trasformazione sociale. Nella seconda parte, che dall’incontro con Enrique Ahriman, all’inizio degli anni ottanta, si trasforma in un romanzo d’artista, si susseguono la scoperta dell’espressione creativa come chiave per “entrare e uscire dalla gabbia” dell’impotenza e del senso di colpa; le riflessioni sul cinema come dispositivo emotivo e strumento politico tanto più efficace quanto meno spettacolare; i ritorni nel cimitero a cielo aperto di Buenos Aires, dove archeologi e antropologi forensi scavano e analizzano i resti di un passato che non passa e a cui il silenzio dei carnefici impedisce di rimarginarsi.
Lo spessore e il fascino di questa autobiografia di un sovversivo che non ha mai smesso di essere tale non risiedono però soltanto nell’unicità della vicenda che racconta, ma anche, e forse soprattutto, nella sua tensione a collocarsi nel clima della generazione che l’ha espressa, nei contesti storico-politici in cui si è svolta e nelle relazioni che l’hanno attraversata o sfiorata. Se è, come di fatto è, una storia di sopravvivenza, quindi una storia eccezionale, ricorda a chiunque quanto sia difficile, e quanto necessario, “costruirsi una vita in mezzo agli altri”.
beatrice.manetti@unito.it
B. Manetti insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino