Una donna fraintesa
di Camilla Valletti
Si firmava Anne “il broccolo”, Anne Gray Harvey Sexton nata nell’oscura Newton in Massachusetts nel 1928, con una punta di understatement che le si addiceva davvero poco. Quando approdò a Boston negli anni sessanta, aveva alle spalle una carriera di perfetta padrona di casa, di madre di due figlie molto poco amate, sensi di colpa a non finire e una spavalderia angosciosa con cui incidere il proprio passato. “Scavandosi l’anima con il martello pneumatico”, Sexton aveva abbandonato per sempre ogni comfort borghese e la ovattata serenità di un ambiente, a suo modo, morboso. La provenienza da una famiglia difficile, votata all’alcolismo e all’inibizione di ogni pulsione erotica, l’aveva spinta a sposarsi a soli vent’anni sperando di trovare nel matrimonio la via di fuga più facile. L’unica figura accudente della sua infanzia era stata la prozia Nana (che si chiamava in verità Anne come lei), finita in manicomio per un disturbo bipolare. Nana era solita confortarla quando la madre le rinfacciava di non essere buona a niente, neppure a stare zitta. Ed è proprio a lei che Sexton dedicò una serie di poesie dolcissime e sconsolate, suo doppio in terra, madre spirituale dagli occhi chiari che rivendicava la necessità di scrivere con una Parker affusolata. Giovanissima tentò la carriera di modella per poi adeguarsi ad una vita di superficie. Ma durò poco: la sua scommessa s’infranse su una disperazione troppo profonda mescolata ad una forma narcisistica che stentava a trovare fiato. Al Ritz di Boston, in quei fatidici anni sessanta, arrivò dunque una donna di bellezza eterea (le fotografie di allora la ritraggono sempre truccata e vestita con molta cura), elegantissima persino nell’accurata combinazione degli abiti e degli smalti di unghie e piedi, già barcollante per i troppi martini dry scolati a cominciare dal mattino. Insieme a lei, la compagna del Boston Center for Adult Education – una scuola di poesia confessionale diretta da Robert Lowell – la schiva e bionda Sylvia Plath. Amiche a loro modo, rivali nel contendersi una pericolosa fascinazione per la morte, discorrevano, tra una nocciolina e l’altra, delle diverse tecniche di suicidio. “Ma i suicidi hanno una lingua speciale / come i falegnami, vogliono sapere quali attrezzi usare / non chiedono mai perché costruirli” scriveva Sexton in una lettera a un’amica. E poi Plath si suicidò, come è universalmente noto, infilando la testa dentro al forno una mattina alle quattro. Sexton in Sylvia Death del 1963, quasi la invidiò, incolpandola di averle rubato la “sua”, di morte. E poi fu il suo turno, dieci anni dopo, nel garage di Boston, nuda sotto a una pelliccia sgualcita della madre, con il gas di scarico dell’automobile.
Due suicidi, due strade verso la morte, due finali sconvolgenti che hanno inestricabilmente legato la produzione di due poetesse diversamente accolte. Se Plath si è tramutata, nel tempo, nella vittima di un sistema maschilista incapace di coglierne le sfumature rivoluzionarie, Sexton è rimasta al tappeto, complice un certo disinteresse, fuori dagli States, per una figura quasi antipatica, guardata come capricciosa e modaiola, illetterata e megalomane. Troppo fuori da ogni canone, performer ante litteram, aveva persino fondato un gruppo rock, gli “Anne Sexton and Her Kind”, con cui leggeva ad alta voce i suoi testi, i suoi affollatissimi reading, intonandoli alla sbornie, agli antidepressivi (le pillole blu che l’aiutavano a scrivere) e le celebri scarpe rosse lanciate sul pubblico. Non è un caso che artisti come Peter Gabriel e Kate Bush le dedicassero due album ispirati al lavoro teatrale uscito postumo, 45 Mercy Street e The Red Shoes. Proprio The Red Shoes compare nella silloge, tradotta di recente con infinita perizia da un’altra poetessa, Rosaria Lo Russo, per la nave di Teseo. Il libro della follia, pubblicato nel 1972 è finalmente accessibile anche al pubblico italiano (con il testo inglese a fronte, pp. 224, € 18, La nave di Teseo, Milano 2021). Un amore corrisposto quello tra Sexton e Lo Russo che nel 1997 aveva firmato la traduzione del volume delle poesie d’amore per Le Lettere e quella del volume L’estrosa abbondanza per Crocetti.
“La calma è in possesso / l’orologio che formicola / le dita come cani in fila / il pentolone che non bolle ancora rospi / la sala bianca d’inverno e senza mosche / la lepre s’acquatta al primo sparo” canta Sexton l’attimo prima che l’euforia agganci le gambe delle donne calzate nelle loro scarpe rosse.
Un universo di simboli, di parole gratuite ma assonanti, con cui Sexton rilegge la sua esistenza di alcolista, adultera, vagamente incestuosa e strenua abortista. Donna strega, come pensava lei di se stessa, femminista di grande coraggio prima che i movimenti per le donne potessero accogliere il suo messaggio, nel The book of Folly Sexton fa i conti con Dio e con Gesù, un uomo che cerca di baciare sulla bocca il padre, un Dio ben poco accondiscendente. Quel Dio che l’aveva spinta a dichiarare “tutti i cazzi del mondo sono Dio”, ora si è tramutato in un padre roseo che ha gettato via il suo sperma. Un padre mansueto, agognato, asessuato a differenza del suo e degli uomini incontrati nella vita. Se percorriamo la galleria dei suo personaggi, incontriamo il signor unasolagamba, il picchiamogli, herr Doktor (il fantasma del suo psicoanalista con cui, tra l’altro, mise in piedi una relazione disastrosa) e la signora della morte, una maschera da fiaba macabra. Rosaria Lo Russo, con uno sforzo a dir poco miracoloso, riesce nell’intento di restituire il vocabolario virtuosistico di Sexton, le sue insonnie, i risvegli precoci, la cioccolata calda marrone, un vibratore solitario e i suoi animali, le favole violente, l’inquietudine motoria. Donna colpevolmente fraintesa come si autodenuncia in Come lei del 1960: “Sono uscita, una strega posseduta che caccia l’aria nera, ho fatto il mio dovere al di sopra delle cose normali. Luce per luce. Ho trovato le caverne calde nei boschi, le ho riempite di tegami, intagli, ripiani… Una donna così è fraintesa. Io sono stata come lei”.