Quando il romanzo si disintegra davanti alla vita
di Maria Candida Ghidini
Un tempo i generi letterari servivano da cinghia di trasmissione tra l’individualità dell’autore e la generalità della tradizione in cui l’opera si inscriveva. Erano garanzia di trasmissibilità e di riconoscibilità, una delle vie che l’io percorreva per diventare universale, uscire dai propri limiti, farsi comunicabile e incontrare l’altro. La letteratura era uno dei luoghi privilegiati di questo incontro, il luogo del divenire della spesso incerta identità moderna, in continua autogenerazione grazie al cortocircuito tra io e altro, tra dentro e fuori.
All’alba del Novecento la compattezza del genere letterario, da tempo in crisi, ha cominciato a disgregarsi in modo più avvertibile e questo ha riguardato soprattutto il romanzo, genere prediletto della modernità. Nel 1922 il grande poeta Osip Mandel’štam scrive un articolo dal titolo La fine del romanzo, dove dice che il romanzo finisce perché si è persa la biografia: l’eroe e la sua parabola esistenziale non vengono più a costituire una struttura, salda e dotata di senso, in grado di puntellare l’architettura della “forma grande” del romanzo. In quegli stessi anni venti in cui, in Russia soprattutto, ci si guarda intorno alla ricerca di nuovi orientamenti e di un nuovo terreno su cui piantare i propri due piedi di individuo accordando il loro movimento all’onda delle masse, la biografia, persa, ricorsa o ricostituenda, diventa un tema ricorrente negli studi filosofici e letterari del tempo. Maksim Gor’kij fonda la fortunatissima collana “Vita di uomini illustri” che, come Plutarco, sull’esempio di grandi del passato, intende rifondare e proporre a modello un nuovo eroismo; i formalisti si chiedono che cosa costituisce l’essenza della biografia di un poeta o di uno scrittore, cosa è pertinente dal punto di vista della letteratura (Boris Tomaševskij, Letteratura e biografia, 1923). E si rispondono che la biografia di un autore è rilevante, è un fatto letterario, solo in quanto essa è plasmata dall’autore stesso come una leggenda con un ruolo strutturale dell’opera; essa è “salutare” per gli studi letterari solo in quanto è un sistema i cui diversi elementi interagiscono secondo principi di selezione e di significazione, crescendo sul modello del linguaggio; va presa in considerazione, infine, solo in quanto si raddensa in forme espresse e, dunque, è comunicabile.
La biografia e il romanzo, dunque. L’io e il suo dispiegarsi in una sequenza strutturata secondo le coordinate spazio-temporali. Sono loro a costituire il problema e qui si incontrano Fëdor Dostoevskij, dalla biografia incredibile e dai romanzi altrettanto incredibili, e Paolo Nori, che da quella biografia e da quei romanzi ha tratto un suo romanzo.“Dostoevskij non ha scritto alcun romanzo”. Il giovane György Lukács si appunta questa osservazione paradossale in quello che poi verrà chiamato il Manoscritto Dostoevskij. Più che un paradosso, in realtà, si tratta di un esercizio di acuta critica testuale, giacché proprio il vertice della scrittura romanzesca dostoevskijana, I fratelli Karamazov, si aprono con lo schermirsi dell’autore (o del suo narratore?) che, incagliandosi in una serie di giustificazioni, afferma che il suo “non è quasi neppure un romanzo”. Qui Lukács riporta la questione del genere letterario al di là dell’ambito formale e ce ne ricorda tutta la sostanzialità. Questa forma letteraria principe della coscienza moderna è certamente espressione di un tempo frammentato, ma al tempo stesso della nostalgia di un’unità perduta o prefigurata nel futuro. Così la definisce il giovane Lukács, proprio riflettendo su Dostoevskij: “epopea di un’epoca in cui la totalità estensiva della vita cessa di offrirsi alla percezione sensibile e la viva immanenza del senso diventa problematica; un’epoca in cui, tuttavia, persiste la disposizione emotiva alla totalità”. E, in effetti, Dostoevskij si situa all’apogeo di quest’epoca: nutrito del grande romanzo europeo ottocentesco, ne ha assorbito temi, forme, procedimenti e con le sue opere ne ha scardinato dall’interno il fondamento, preparando il terreno alle nuove, liquide, forme novecentesche. Non a caso proprio su di lui si sono forgiate le grandi riflessioni sul romanzo, quella di Vjačeslav Ivanov, di Michail Bachtin, il succitato Lukács o, più recentemente, René Girard, solo per citarne alcune, che hanno escogitato termini e concetti per catturarne la sfuggente specificità: romanzo-tragedia, romanzo ideologico, romanzo polifonico… È significativo, dunque, che Dostoevskij sia molto sensibile alla caratterizzazione di genere delle sue opere e quasi sempre insista a definirle con sottotitoli che sarebbero preposti a specificarne il genere o, addirittura, il sottogenere.
Ma la cinghia di trasmissione, il genere appunto, trova la sua definizione grazie ai due poli che unisce, l’io e il mondo fuori dall’io, o per dirla con la lingua da manuale di filosofia, l’individuale e l’universale. O, ancora, quel “io son poi da solo, e loro sono tutti”, secondo il Dostoevskij di Paolo Nori (Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Dostoevskij, pp.188, € 18,50, Mondadori, Milano 2021). Se non c’è io, non c’è romanzo, ma anche, e questo sembra meno evidente ma non è meno vero, non c’è romanzo se non c’è comunicazione e riconoscibilità, ovvero, non c’è storia, società, comunità. E così dalla perdita della biografia e dalla perdita del romanzo, vissute e registrate giusto un secolo fa, nasce “questo libro che crede di essere un romanzo” e questa biografia di Dostoevskij che sembra parlare di Paolo Nori, scritta da Nori. Questo romanzo si traveste da non-romanzo (ma è una mossa tipica del romanzo più classico, lo fa Tolstoj, lo fa, abbiamo visto, Dostoevskij) per potere inseguire e raggiungere la vita, che non è solo quella di Dostoevskij, tracciabile e ricostruibile nella biografia dostoevskijana, ma anche quella di Nori stesso, e, perché no?, la vita orfana di ognuno di noi. Non si tratta, infatti, del curriculum vitae del signor Nori Paolo di Casalecchio di Reno, ma dell’immagine (maschera?) da lui creata che informa le sue opere. Non ci imbattiamo in una certa realtà psicologica o personale, perché in tal caso avrebbe avuto ragione la signora di Bergamo che, venuta in libreria a sentir parlare di Tolstoj, se ne va scocciata, quando Nori inanella aneddoti della propria vita privata. È la leggenda di cui parla Tomaševskij, la stessa che Šklovskij cerca in Tolstoj, ad esempio: l’immagine dell’autore forgiata per rendere visibile e percettibile, ovvero sopportabile, quel flusso informe della Vita che ci assedia e angoscia, se non adottiamo qualche strategia per addomesticarlo.
In questa operazione Nori va a scuola da Dostoevskij (che aveva studiato da Gogol’) e forgia il suo narratore, quella voce così caratteristica che, come un piccolo Mida, rende noresche tutte le cose che tocca. Essa è il procedimento che struttura e dà l’unità all’opera. Le biografie, quella di Dostoevskij e quella di Nori stesso, si toccano in diversi punti provocando scintille, anzi, ferite, ma esse non sono che il materiale che consente a questa voce di dispiegarsi e correre un po’ a zig zag, tenendosi saldamente lungo i binari della cronologia biografica dostoevskijana. Con le sue apparenti digressioni, che in realtà fanno parte della struttura e che sono il risultato di una prodigiosa sovrabbondanza di letture, Nori segue la mossa del cavallo di Šklovskij, più libero, degli strutturati pedoni, di sondare l’insolito e il meraviglioso, nascosti nella realtà che normalmente si apre ai nostri occhi. Poi, chiaramente, il lettore si godrà il materiale bruciante della vita di Dostoevskij, ripreso attraverso un filtro, personalissimo fino all’idiosincrasia, con tutto il bagaglio di passioni e preferenze (quell’inciso ricorrente, dalla netta cadenza parmigiana, “sarò io, eh”); emergeranno tanti dettagli che, al di là dell’aneddoto, sono selezionati perché metonimici di un quadro generale che continuamente tende ad ampliarsi e fornisce uno scorcio su molti autori della letteratura russa e non. Infatti, un testo chiama l’altro e la lettura, cardine della biografia dostoevskijana e, forse, materia prima del narratore di Nori, è un esercizio che si avviluppa su se stesso all’infinito.
A questo punto cercare qualche piccola imprecisione, o “energetico” errore à la Šklovskij, è occupazione che non ci riguarda, da lasciare ai baccalà degli essicatoi universitari, frequentati del resto anche da Nori, ma non dal suo narratore.
mariacandida.ghidini@unipr.it
M. C. Ghidini insegna letteratura russa all’Università di Parma