Bobi, Memè Scianca: gli ultimi libri di Roberto Calasso

Produrre libri come potenti contravveleni 

di Bianca Maria Paladino 

Roberto Calasso
BOBI
pp. 97,€ 12,
Adelphi, Milano 2021 

 Roberto Calasso
MEMÈ SCIANCA
pp.
96,€ 12,
Adelphi, Milano 2021 

Roberto Calasso ci ha lasciato la notte tra il 28 ed il 29 luglio, ma ha voluto donarci due piccoli e preziosi testi che sono stati distribuiti nelle librerie proprio il giorno in cui è mancato. Una volta di più libri unici, “nati da una esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente” (Bobi), “schegge inconfondibili di come Bazlen (e Calasso stesso) concepiva(no) Il rapporto fra i libri e le ragioni per cui dovevano stare insieme o si escludevano”. Due pagine di quel formidabile diario editoriale che molto fa capire di che cosa è fatta Adelphi e di come è nata: il primo, Bobi, dedicato a Roberto Bazlen e il secondo, Memé Scianca, ricordi di gioventù e di famiglia, dedicato ai figli Josephine e Tancredi. Entrambi per i tipi della tascabile “Piccola Biblioteca”, testi, come in “Biblioteca Adelphi”, diversi con “qualcosa (che li) tiene insieme – e i buoni lettori dovrebbero accorgersene” (Bobi). Sono parti della medesima storia che ha impresso L’Impronta dell’editore Calasso-Memé Scianca (nome che si era attribuito da bambino), già altrove esposta organicamente e storiograficamente, ma qui raccontata per frammenti di memoria. Non libri privi di “forma”elemento consustanziale all’editoria tutta, ma scritti in progressione non lineare cronologicamente. Nel primo, su Bazlen, “ogni volta che il cugino Bobi veniva evocato, il tono (di Giorgio Settala) cambiava, come entrando in una zona indominabile, attraente ma elusiva, distinta da ogni altra. Che cosa faceva il cugino Bobi? Nessuno poteva dirlo. Ma certamente era un passo più in là di tutti”; “era una delle rarissime persone le cui parole si incidevano nella testa di chi le ascoltava e non solo per ciò che dicevano ma per il timbro, il tono, un certo gesto implicito”, “che cosa mi aspettavo di trovare in Bazlen? Esattamente quello che lui era…una sorta di uragano silenzioso che, anche per la sua totale assenza dalla scena, avesse il potere di piegare e appiattire quella geografia prestabilita che costituiva allora non solo la letteratura ma, in una concatenazione che sembrava inscalfibile, anche il cinema, la politica, la pittura, il teatro, la moda e il resto. I talenti non mancavano… ma qualcosa mancava. E forse l’essenziale. Bazlen fu per me quell’essenziale”; “dai libri si partiva e ai libri si tornava…parlare di libri, magari a un amico – e forse anche a un editore. Era una attività che sapeva praticare fino in fondo una sola persona: Bazlen stesso”.  

Bobi - Roberto Calasso - copertinaQueste e altre citazioni sono il ricordo delle emozioni e  dell’incontro felice di un ventunenne ricco e non pago di letture, con un uomo di rara intelligenza e cultura vissuto nella Mitteleuropa, imprendibile e mai preso in un sistema di convenzioni ed idee correnti. Eppure quel “fantomatico consulente per Einaudi” – dopo l’incontro in via Margutta con Elemire Zolla e Cristina Campo per un giudizio sulla traduzione di poesie di William Carlos Williams – doveva diventare il compagno di assidue e solitarie frequentazioni del giovane Calasso. Tutto il destino editoriale cominciava a prendere corpo da quegli incontri dentro e fuori Roma. La prima lingua di Bazlen era il tedesco, poi l’inglese ed il francese; egli attingeva ad una mappa geografica più estesa di quanto altri lettori, già audaci, potessero. Trakl, Kafka li aveva proposti lui al noto editore tedesco Kurt Wolff così come aveva segnalato Svevo ad Eugenio Montale, poi Gadda, Joyce, Saba, Valery. Tutti scrittori a lui familiari già nella Trieste del 1925.  Era così avanti da scrivere nei suoi quaderni: “È un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi”;  a uno scrittore non resta che tentare “o il minuscolo o l’immenso… o il tutto” (J. Renard): una vera fame d’aria di pensiero! Inevitabile dunque l’avventura Adelphi nel 1962 in via Morigi a Milano: “faremo solo i libri che ci piacciono molto”. E infatti quella nuova casa editrice fu l’opera compiuta di Bazlen. I fondatori: Luciano Foà e la segretaria Donata; Giorgio Colli e Mazzino Montinari, per l’edizione critica di Nietzsche; Sergio Solmi e i due mutanti, come li definì Bazlen stesso: Claudio Rugafiori e Roberto Calasso. Insieme si discuteva di caratteri, corpi, grammature di carta, immagini e naturalmente di libri, segnalati da Bobi su veline gialle. Quei libri unici e diversi che sarebbero andati a comporre un Universo altro nella editoria italiana per generare quell’unità complessa cui la tanto amata (da Calasso) cultura orientale, tende. Purtroppo Bazlen morì nel 1965, il 27 luglio, quasi lo stesso giorno di Calasso. Riuscì a vedere solo il volume numero uno della Biblioteca, Alfred Kubin, L’altra parte, opera simbolo perché indicava il punto da cui si sarebbe collocata l’Adelphi. Un punto da cui si avvertivano “suoni nuovi” che avrebbero reso “armonioso” l’intero catalogo e da cui sarebbero stati esclusi quei testi che non avrebbero consentito il raggiungimento di quell’obiettivo. 

Alla morte di Bazlen seguì un silenzio rotto soltanto da Montale, il 6 agosto. Durissimo è il giudizio di Calasso nei confronti del poeta che più di ogni altro avrebbe saputo e potuto descriverne le numerose qualità e che invece ne ridimensionò la funzione culturale svolta in quegli anni. Il ritratto di Bobi del nostro autore si conclude invece con un giudizio che, a distanza di anni e dopo aver letto quanto rimane delle sue numerose carte e lettere, è ancor più fondato e lucido della prima impressione che ne aveva avuto conoscendolo da ragazzo: “Bobi era la persona più veloce nel vedere il ‘dettaglio luminoso’ (Pound) che abbia avuto la fortuna di incontrare”; egli aveva fondato la sua vita stessa su un irrimediabile non sapere, esposto alle onde in ogni direzione. Era stato il suo modo di diventare vivo”. E come aveva già scritto nelle Note, di cura a Roberto Bazlen, agli Scritti, Adelphi, 1984: “era un uomo post-storico, del quale nessun quadro culturale o ricostruzione di ambiente riuscirà a fare giustizia”. E in effetti anche altre ricerche o scritti sono pervenuti alle medesime conclusoni: tra gli altri Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, Einaudi, 1983 e, più di recente, Cristina Battocletti, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, La Nave di Teseo, 2017. 

Memé Scianca torna ancora più indietro, ai suoi dodici anni. L’occasione è il commento di Ai miei figli di Florenskij ai due figli che interrompono Calasso per chiedergli dei suoi ricordi d’infanzia a Firenze. Lui racconta che il suo primo libro di memorie cominciò a scriverlo a 12 anni, esperimento presto abbandonato. Il nuovo libro diventa quindi l’occasione per riannodare quei fili invisibili che legano questa parte della sua storia a quella sua apparente assenza dalla scena nel testo che abbiamo appena recensito (“ciò che ci è più vicino ha bisogno di una via tortuosa per arrivare a mostrarsi”). I luoghi, Villa San Domenico, il giardino, il bosco, l’ambiente sociale (La Pira, Pasternak, Momigliano). La prima conversazione letteraria di cui racconta è quella con Enzo Turolla; discutono del saggio di Croce su Baudelaire. La passione per il poeta francese lo induce a prelevare dalla biblioteca del nonno la preziosa edizione Crès del 1930 di Les Fleurs du mal, ma la nonna Maria lo scopre e lo obbliga a restituirla. Quella edizione gli sarà donata poi con le annotazioni e le dediche prima del nonno alla nonna, poi dalla nonna alla madre e infine a lui. Attraverso Turolla resterà affascinato da Proust. Lo descrive così: “Enzo non fu mai un uomo di scrittura. La sua capacità di convincimento era totalmente orale. Stava nel timbro, nell’accento, nel modo di emettere le singole parole, che erano non un giudizio, ma una trasmutazione fulminea, in poche sillabe, dell’essenza del libro di cui si parlava”. Era già sensibile al fascino della parola, della coerenza del suono e La Recherche, edizione de La Pleiade sarà il suo regalo di Natale. Frau Block, il primo nome di donna tedesca conosciuto, amica dei genitori, scoprirà essere la Grete Bloch citata nelle Lettere a Felice di Kafka. Un segno del destino. Figlio di Francesco, giurista accademico (accusato dell’assassinio di Giovanni Gentile ed incarcerato, ma poi liberato dal console tedesco Wolf) e di Melisenda Codignola, filologa; nipote di Ernesto Codignola, fondatore de «La Nuova Italia». Dai giochi passa ai libri “che mi attiravano da sempre, per sprazzi intermittenti. È una conquista graduale la possibilità di immergersi in un libro con la stessa intensità che si sperimenta nel gioco. Eppure ci fu una notte in cui leggere mi travolse, più ancora dei miei amati giochi… mi trovai a leggere Cime tempestose… quella notte non finiva mai. Credo che fino ad allora non sapessi che cos’è la passione .. era una di quelle rivelazioni che nessun gioco mi avrebbe concesso… ma scoprirla in un libro era qualcosa di diverso. Andava più a fondo”. Chiude i ritratti con quello di  Erich Linder, l’agente letterario più autorevole e potente d’Europa e con Firenze fino al 1954. Dopo c’è Roma ed è già parte dell’oggi.  

Roberto Calasso è stato autore di numerosi testi di varia natura, non soltanto saggistica, che qui non citerò pur essendo stati libri di grande successo e di straordinaria qualità letteraria, ma mi sia concesso citarne, in continuità con questa sorta di testamento morale che i due testi sin qui sintetizzati rappresentano, altri tre che chiudono più sistematicamente il discorso sui libri e sull’editoria. Essi sono: L’impronta dell’editore del 2013; L’innominabile attuale, del 2017; Come ordinare una biblioteca, del 2020, tutti pubblicati da Adelphi. Chiudo infine con l’apertura al futuro che Bobi indica con chiarezza: “che cos’era, allora, Bazlen, rispetto al regno informatico?… la testimonianza di un mondo passato, affascinante, ma da lasciare a pochi studiosi che lo avrebbero ricostruito, fra molte gaffes e imprecisioni, con l’impressione di aver compiuto un dovere culturale? Sarebbe diventato tutto ciò che Bazlen detestava. Invece continua ad essere tutt’altro: un potente contravveleno… Rimane ancora la possibilità di una vita che incameri in sé il regno informatico come una potenza da applicare quando serva. O altrimenti si può provare a sottrarsi al suo imperio. Allora Bazlen tornerebbe a essere quanto mai utile”.  

biancapalad@outlook.it 

B. M. Paladino è studiosa dell’industria editoriale