Fuori dalla “bolla”, un bilancio del Festival più atteso di sempre
Per molti passerà alla storia come il festival con il peggior presidente di giuria di sempre (l’amato Spike Lee, regista militante e irriverente che ha scritto pagine importanti della storia del cinema afroamericano), non solo per la “samemoratezza” e le gaffe della cerimonia di premiazione, ma anche per il palmares più divisivo degli ultimi vent’anni. Perché due premi ex aequo stanno a significare che non c’è stato accordo nelle scelte da parte dei giurati e che il compromesso ha poi finito per scontentare tutti. E così i bellissimi A Hero dell’iraniano Asghar Farhadi e Compartment N°6 del finlandese Juho Kuosmanen, hanno dovuto dividersi il Gran Premio della Giuria e l’indonesiano Memoria di Apichatpong Weerasethakul e l’israeliano Ahed’s Knee di Nadav Lapid il Premio della Giuria. Riconoscimenti meritatissimi, per film personali, forti, espressione di un’idea di cinema di intensità e rigore, tuttavia talmente diversi tra loro da fare girare la testa. Meritato anche il premio alla sceneggiatura per il giapponese Hamaguchi Ryusuke e Takamasa Oe per Drive My Car, mentre la vera “pietra dello scandalo” è la Palma d’Oro, consegnata con estrema superficialità a Titane della giovane francese Julia Ducournau. Opera seconda più che acerba, film che manca di un progetto e che quindi si perde in mille errori di valutazione e di ingenuità. Inutile dire che il film ha letteralmente diviso la stampa internazionale (e italiana) tra estimatori e tenaci detrattori, ma il dibattito si sposterà presto dalle pagine dei giornali alle sale cinematografiche grazie alla distribuzione (I Wonder) che, si spera, approfitterà del clamore per farlo uscire presto.
Acceso anche il dibattito sul festival come evento culturale e strumento di rilancio del cinema in generale, e su come questa 74esima edizione del festival più importante del mondo si sia imposto come una manifestazione sempre più smaterializzata e senza concentrazione, dove si sprecavano gli assembramenti di fan e curiosi davanti alla passerella rossa (e la scoperta che i francesi sono molto più rilassati di noi in materia di Covid), e dove, paradossalmente, si sono persi i dibattiti tra addetti ai lavori, troppo spaesati da regole che obbligavano a mostrare mille certificati, Qr code per il passaporto vaccinale, per il tampone (che andava ripetuto ogni 48 ore), per i “biglietti” anch’essi virtuali, da scaricare sui cellulari (eppure si parla di settanta casi di covid rilevati). Per non parlare dei sistemi di sicurezza anti terrorismo, con metal detector, controlli di borse e tasche e mille varchi da superare prima di arrivare, ogni volta, finalmente in sala. Personale inflessibile ma gentile, festivalieri accreditati sull’orlo di una crisi di nervi. Come aver assistito a due festival in uno anche per il numero dei film. Il direttore Thierry Frémaux ha concentrato due edizioni per la bulimia tutta cannense di non rinunciare a nulla. L’impressione, a proiettori spenti, è quella di una corsa contro il tempo durata 12 giorni, con film belli, bellissimi, mediocri, terribili come ogni anno, che, più di ogni anno si spera abbiano comunicato e comunicheranno agli spettatori una nuova voglia di cinema, dopo i lunghi mesi di chiusura e di un biennio da dimenticare.
Grazia Paganelli