di Marina Vitale
La Biennale di Venezia Teatro ha appena conferito il Leone d’argento a Kae Tempest, poeta, rapper, drammaturgə e romanzierə londinese, definitə nella motivazione: “La voce poetica più potente e innovativa emersa nella Spoken Word Poetry degli ultimi anni”. Sulle scene italiane, per ora, abbiamo visto un’intensa produzione di Wasted e una magnetica rielaborazione della figura di Tiresia nella raccolta poetica Resta te stessa, entrambe proposte dalla compagnia Bluemotion e dalla sua regista di riferimento Giorgina Pi.
Le sue opere affrontano a voce alta ingiustizie sociali, economiche e razziali e si interrogano senza ipocrisie su questioni delicate come la complessità identitaria e la fluidità di genere. Fino all’anno scorso si chiamava Kate, e pensava a se stessa al femminile. Nell’agosto 2020 ha fatto coming out dichiarando su Instagram: “Cambio nome, cambio pronomi! Da Kate a Kae. Da lei a loro. Ho lottato a lungo e sto ancora lottando per accettare me stessə…”
Il Leone d’argento corona un’intensa carriera costellata di successi di pubblico e premi letterari. I suoi album musicali riscuotono un alto gradimento di ascolti e di critica, entrando spesso nelle classifiche di premi importanti. Grande interesse suscitano anche le raccolte poetiche costituite dai testi di tali album, quattro delle quali (Che mangino caos, 2017; Resta te stessa, 2018; Antichi nuovi di zecca, 2018; Un arpeggio sulle corde, 2021) disponibili in italiano nell’ottima traduzione di Riccardo Duranti per le edizioni e/o. Ha scritto testi teatrali, tra cui Paradise, il cui esordio, programmato per il 2019, è stato rimandato all’agosto 2021 a causa della pandemia. Riscrittura del Filottete di Sofocle, è in linea con gli interessi caratteristici della sua produzione: il protagonista è l’ultimo di una serie di eroi marginalizzati, fiaccati, abbandonati e idealmente sopravvissuti a se stessi, che popolano le sue pagine. Opera inoltre un cortocircuito, secondo una modalità anch’essa tipica della sensibilità di Tempest, tra la prosaica attualità quotidiana e la profondità del mito, come suggerisce il titolo geniale della raccolta del 2012, Antichi nuovi di zecca, e come conferma la centralità della figura di Tiresia, uomo-donna-adolescente, in Resta te stessa:
Tiresia, sei restato te stesso. | Ogni te stesso che sei stato. | Ti aggiri tra noi, lento, | cornacchia un po’ spennata, | ma il fiato ancora ti resta | per farci vedere la verità | che vorremmo non sapere. | […] Mentre ci costruiamo online | e fissiamo i nostri telefonini | tu resti luminoso e terrificante, | in fiato e carne e ossa. | Tiresia – insegni a noi tutti | cosa significa restare se stessi.
Non sempre la critica ha compreso la carica dirompente di quest’ibridazione di antico e moderno, sottolineando invece le manifestazioni superficiali della sua cultura classica per mitigare il suo messaggio rivoluzionario e giustificarne il successo agli occhi dei benpensanti. In On Connection, un saggio/autobiografia del 2020, Tempest ne parla con ironia: “Quando mi intervistano, i giornalisti si riferiscono puntualmente al mio aspetto ‘angelico’, ai miei capelli ‘d’oro’, al mio volto ‘da bambina’ e al mio interesse per la mitologia greca. Penso anzi che i miei costanti riferimenti a quest’ultima debbono essere serviti a consolidare la mia accettabilità”.
On Connection è stato scritto in un periodo in cui il mondo dello spettacolo è stato costretto dalla pandemia a interrompere l’attività pubblica e ripiegarsi su se stesso riflettendo sulla propria missione, i propri ideali, i propri limiti. È questo appunto il percorso di introspezione compiuto da Tempest, che si immerge nella propria esperienza di performer e di autrice, nel proprio sforzo per stabilire la “connessione” invocata nel titolo: quel contatto, quell’empatia con il pubblico di spettatori o di lettori che rende valida una creazione e può avvenire solo nell’incontro tra bisogni, sentimenti, convinzioni ineludibili. Un lavoro di scavo il suo, teorico ma anche personale e intimo, che rivive la sua intera carriera fin dagli esordi quando, ancora adolescente, aveva raggiunto la notorietà come rapper, esibendosi continuamente e dovunque; senza risparmiarsi; fino, anzi, a rovinarsi le corde vocali ed essere costretta a un’operazione chirurgica. Furono anni di smarrimento e di rivolta, di dipendenza da alcool e droghe; di dispendio di energie in locali improbabili in cui cantava per pochi soldi con la voce sempre più roca, esaltandosi però appena entrava in contatto con un pubblico piccolo o grande, nei pub, ai grandi magazzini, a feste private; con attrezzature difettose, aria irrespirabile; addormentandosi su un divano dietro la scena finché non la svegliavano mettendole in mano un microfono. Aveva ormai sfondato, anche grazie alla risonanza delle sue tematiche esistenziali con la disperazione di masse giovanili prigioniere di precarietà e incertezza, divise tra aspirazioni neoliberiste e consumiste e un orizzonte bloccato. Ma aveva mantenuti ritmi parossistici di lavoro e di vita, in Gran Bretagna e in Europa; e successivamente negli USA, dove si era recata per un giro promozionale de Le buone intenzioni. È qui che, secondo la sua narrazione, vive il momento epifanico in cui le sue intuizioni e la sua sete di trascendenza si saldano con una visione filosofica articolata e pervasiva dell’essere e dell’agire. La rivelazione avviene nella sezione “libri rari” di una megalibreria di Portland, Oregon, dove vede, esposto in una teca di cristallo, il Libro rosso: il libro segreto di Carl Gustav Jung che lə conquista con la distinzione tra i falsi richiami dello “spirito del tempo” e la forza genuina che governa dal profondo ogni presente, e che Jung definisce infatti “spirito della profondità”.
Assume quindi maggior peso la parentela, che spesso trapela nelle sue opere, con gli sperimentatori del metodo mitico, in particolare con T.S. Eliot la cui voce sembra a volte echeggiare in giri di frasi o sorprendenti illuminazioni visive, soprattutto nelle raccolte poetiche, dove i vincoli ritmici e prosodici inducono ermetismi fulminanti di modernista memoria. Si pensi alle immagini, bellissime, di Resta te stessa: “e quando si svegliava senza fiato da un incubo | si ricomponeva un pezzo alla volta | come una reliquia scoperta tra cenere e terra, | un’antica collana preziosa”. Salta agli occhi però la diversa valenza dell’ibridazione mitica che in Tempest non implica nostalgico compianto per una grandezza ormai perduta nella contemporaneità degradata, e tanto meno per uno squallore già-da-sempre insito nella realtà (si pensi ai laidi usignoli eliotiani che cantano nella Terra Desolata “così come cantarono nel bosco insanguinato | quando Agamennone forte gridò/ e lasciarono le loro feci liquide cadere | a macchiare il sudario rigido e disonorato”). In Antichi nuovi di zecca, invece:
Gli eroi ci sono sempre stati | e i cattivi ci sono sempre stati. | […] Continuiamo a vivere | in tutta la nostra furia, malvagità e conflitti, | odissee quotidiane, sogni e decisioni…. | Le storie sono qui, | le storie siete voi, | le vostre paure | e le vostre speranze | sono vecchie come le parole di fumo, | le parole del sangue, | le parole dell’amore | che langue.
Significativo è l’uso di citazioni come epigrafi di volumi e sezioni e come intitolazioni di capitoli; frequentemente attinte da William Blake, poeta visionario. Ancor più interessanti le criptocitazioni, numerosissime, che c’investono con un brivido di riconoscimento, arricchendosi di nuovi aloni di senso come nel titolo dell’ultima raccolta, Running upon the Wires, che allude, sì, a un “arpeggio sulle corde”, come ineccepibilmente traduce Duranti in accordo con l’esergo tratto da un racconto di James Joyce; e tuttavia mantiene, nell’originale, anche il senso straziante di un correre pericolosamente – dolorosamente, forse – su corde tese. La poetica delle citazioni Tempest l’ha certamente assorbita dalla cultura hip-hop di cui si nutre la sua vocazione di rapper. Ma se ne serve anche per esprimere una concezione complessa dell’esistente e del groviglio temporale di cui è intessuta l’esperienza: gli antichi sono sempre nuovi di zecca, e il presente è una discarica di passati. Un arpeggio sulle corde, il più intimo dei suoi libri, racconta un amore: i momenti appassionati, conturbanti, felici e disperati di una passione erotica. E non procede da un inizio a una fine, ma si snoda in tre sezioni intitolate, nell’ordine, “Fine”, “Nel mezzo” e “Inizio”; tutte e tre innervate di aspettative e ricordi; tant’è che in un impulso di rivelazione totale di se stessa all’amata, di denudamento della propria intimità, la voce lirica conduce letteralmente l’amante in una discarica sul lungofiume (“T’ho mostrato l’anima mia nella vecchia àncora arrugginita, nel televisore sfondato”).
Il rapporto con la classicità, interiorizzata, attualizzata e filtrata attraverso la pratica performativa dell’hip hop e del rap, fornisce anche uno strumento stilistico per orchestrare diversi punti di vista. Wasted, un dramma del 2011 (pubblicato nel 2013), si apre, come una tragedia greca, con un coro anonimo a tre voci che fornisce il quadro “esistenziale” in cui si consuma lo spreco di potenzialità e speranze di tre personaggi ex-giovani che si riuniscono per commemorare un amico, scomparso dieci anni prima senza aver realizzato il sogno di diventare un musicista. Una simile funzione dialettica svolge la voce fuori campo che si alterna con la narrazione ne Le buone intenzioni. Del resto anche nelle sue esibizioni di “Parola parlata”, e nei dischi che le registrano, i suoi assòli minimalisti si intrecciano con parti corali, stabilendo una contrapposizione che si aggiunge a quella musicale tra momenti di velocità frenetica e aggressiva e rallentamenti affettuosi e quasi melodici. Una formula di provato successo.
Marina Vitale è anglista
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