La fine del mondo e noi
di Matteo Fontanone
Con lo scoppio della pandemia nel tardo inverno del 2020, la riflessione individuale, collettiva e politica intorno alla crisi climatica e al futuro che ci aspetta ha subito una battuta d’arresto immediatamente percepibile sfogliando i giornali o aprendo la pagina di un qualsiasi quotidiano online. Quell’inedito affaccio sulla fine del mondo che nel 2019 si stava materializzando di fronte a noi con una rapidità mai vista prima (ricordate le reazioni al trittico di incendi in Siberia, Australia e Amazzonia?) all’improvviso, con le terapie intensive piene e la morte in casa, non è sembrato più così incombente. La prospettiva della fine è tornata a macerare in qualche anfratto nascosto del nostro inconscio, ma era solo questione di tempo. Se è vero che il Covid-19 ci ha costretti a una netta riformulazione delle nostre priorità, imponendoci nuove posture di vita davanti a un mondo radicalmente cambiato, è altrettanto evidente che domani è dietro l’angolo, e gli ultimi bollettini sulla salute dell’ambiente ricevuti un attimo prima che il virus ci travolgesse non erano affatto rassicuranti. In molti sostengono che, anche a fronte di provvedimenti immediati e risolutivi che almeno per il momento sembrano piuttosto di là da venire, per salvare il pianeta sarebbe già troppo tardi. Anzi, conviene fin da subito ribaltare il pensiero antropocentrico che spesso, quando si parla di fine del mondo, rischia di non farci vedere con chiarezza le cose come stanno: non è il pianeta a essere compromesso, ma soltanto la nostra sopravvivenza su di esso. Le immagini del disastro annunciato le conosciamo tutti, ne siamo sopraffatti e allo stesso tempo anestetizzati. Le isole di plastica nel Pacifico, gli orsi polari minacciati dallo scioglimento dell’Artide, gli incendi dei grandi polmoni verdi del pianeta. Fotogrammi, video e testimonianze che ci richiamano alle nostre responsabilità nello sfruttamento intensivo delle risorse, e che veicolano un messaggio di cui ora, per comodità, proviamo a dare una sintesi: l’uomo sarà la causa della sua stessa estinzione.
Negli ultimi anni il cambiamento climatico è stato raccontato da diversi saggi d’intervento e reportage, alcuni dei quali sono diventati tasselli fondamentali del dibattito sul tema – pensiamo a La grande cecità di Amitav Ghosh, Neri Pozza 2017 –, ma ancora non ci si era focalizzati sulla reale percezione che l’uomo ha dell’imminente catastrofe e, soprattutto, della sua ineluttabilità. Uno dei primi a sollevare il polverone mediatico a livello internazionale è stato lo scrittore Jonathan Franzen, che nel settembre 2019 si chiedeva sulle colonne del “New Yorker” se non fosse il caso di ammettere a noi stessi l’irreversibilità della nostra condizione e, con parole sue, “prepararsi all’apocalisse”. Il pezzo fece scalpore e destò parecchie critiche, soprattutto dalla sponda ecologista: se davvero non c’è più nulla da fare, a che serve impegnarsi per le politiche ambientali, fare pressioni affinché i governi riducano le emissioni di gas serra e abbraccino senza riserve le linee guida tracciate dal Green New Deal? Lo spettro che in molti vedevano dietro a quelle osservazioni era la rinuncia alla lotta. Un anno dopo, Franzen ha riannodato i fili del suo discorso nel saggio E se smettessimo di fingere? edito in Italia da Einaudi. Anche qui il punto di partenza è sempre lo stesso, il fallimento delle misure collettive adottate in passato e l’impossibilità di metterne in atto di abbastanza efficaci per il futuro. Poi, certo, Franzen ribadisce l’importanza del mitigare il cambiamento climatico (“anche se non possiamo più sperare di salvarci dai due gradi di riscaldamento, ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per ridurre le emissioni di anidride carbonica”) e auspica un nuovo consesso umano, più democratico e giusto, per affrontare gli anni durissimi che verranno, ma si tratta di punti di luce abbastanza flebili. Nella rimodulazione del concetto di speranza con cui si apre il suo scritto, Franzen suggerisce di abbandonare la retorica logora del rimboccarsi le maniche per salvare la terra e, al contrario, si prefigge un nuovo tipo di etica, finalizzata all’impegno per un presente migliore qui, oggi, senza porsi troppe domande né coltivare uno sguardo di lungo termine; in questo modo potremo continuare a fare la raccolta differenziata senza sentirci inutili e, protetti da strutture sociali più salde ed eque, sarà più facile sopravvivere quando dovremo guardare in faccia l’inevitabile.
In Minuti contati. Crisi climatica e Green New Deal globale, edito da Ponte alle Grazie, Noam Chomsky e Robert Pollin, pur senza arrivare alle conclusioni catastrofiste di Franzen, partono dalle sue stesse premesse: tra le maglie di una società regolata dai ritmi e dalle storture del tardo-capitalismo, l’unico modo per combattere la crisi ambientale dev’essere dall’interno, sollecitando il capitalismo a un cambio di paradigma, a una riconversione totale verso un’economia verde e sostenibile. Sul successo dell’operazione è evidente che non ci si possa ancora pronunciare, ma rimane la sola speranza che abbiamo. Viene in mente quella massima di attribuzione indefinita (la cita Mark Fisher all’inizio di Realismo capitalista – Produzioni Nero, 2018 – e alcuni sostengono sia da ricondurre allo stesso Chomsky) secondo cui oggi sarebbe più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo: in ogni caso, purtroppo, le due parabole non sono mai state così coincidenti come in questi anni. Nella direzione di Chomsky e Pollin, e con ancora più fiducia nelle nostre possibilità di salvezza, si muovono anche l’economista Jeremy Rifkin e la saggista superstar Naomi Klein: il suo Il mondo in fiamme ha come sottotitolo Contro il capitalismo per salvare il clima, ma è evidente che dal capitalismo purtroppo non si possa prescindere; per lei e per Rifkin, Alessio Giacometti su “Il Tascabile” ha parlato di una prospettiva “segnatamente eco-capitalistica”, tecno-entusiasta, orizzontale e democratica, imbevuta di economia circolare e buone intenzioni, ma allo stesso tempo inevitabilmente naïf. Insomma, chi con previsioni dettagliate sul passaggio verso nuovi modelli economici, chi con ragionamenti di larghissimo cabotaggio come quello della giallista Fred Vargas nel libro L’umanità in pericolo (Einaudi 2019), chi attraverso appelli generalisti come il filosofo francese Aurélien Barrau in Ora. La più grande sfida della storia dell’umanità (Add 2020), il grido d’allarme è sempre lo stesso: non esiste un pianeta di riserva, il tempo a nostra disposizione sta scadendo, facciamo presto.
La situazione è altamente compromessa, sembrano dirci, ma una fiammella resta accesa. Franzen, con il suo placido disincanto, probabilmente sorriderebbe del loro positivismo, tanto quanto, sotto sotto, immaginiamo si sia interrogato sul senso profondo di alcuni movimenti di matrice ecologista come Fridays For Future o Extinction Rebellion. Più vicini alle sue posizioni, nonostante non ne condividano la causticità dello sguardo, sono alcuni interventi di saggisti italiani come Luca Mercalli che dopo un’accurata analisi del campo di forze e della posta in gioco sostiene: “Per ora non vedo attorno a me i segnali sufficienti a credere in una svolta risolutiva della gigantesca crisi ambientale e sociale nella quale stiamo scivolando”. L’ultimo approdo di questo percorso tra le scritture sulla fine del mondo costituisce, in una certa misura, la deriva naturale di quanto appena esaminato in questa galleria di libri: la paranoia. Se la nostra sopravvivenza sul pianeta è segnata, e se non sono state varate politiche abbastanza efficaci per scongiurare il peggio, tanto vale provare a salvarsi percorrendo la via dell’individualismo. Appunti da un’Apocalisse sono i reportage di Mark O’Connell negli universi creati negli ultimi anni da chi, un po’ come Franzen, è rassegnato alla fine del mondo, ma a differenza sua sta elaborando complicatissime strategie per resistere e, possibilmente, salvarsi. Che cos’hanno in comune i survivalisti con lo zaino sempre pronto sotto al letto e gli anziani entusiasti pronti a investire i loro risparmi nel progetto avveniristico con cui Elon Musk vorrebbe colonizzare Marte? L’idea di farsi trovare pronti al peggio, di anticipare l’apocalisse o combatterla con una exit strategy già collaudata. La cornice narrativa di O’Connell si fonda sull’intreccio esplosivo di paternità e impotenza: “Era la fine del mondo e me ne stavo seduto sul divano a guardare cartoni animati con mio figlio”. E così, preso dal desiderio di toccare con mano le prime avvisaglie della catastrofe in arrivo, si lancia in una serie di reportage dalle zone del pianeta in cui coloro che hanno già perso le speranze nel Green New Deal sondano la fattibilità di strategie alternative.
Da questa tassonomia degli ossessionati dalla fine del mondo ricaviamo soprattutto una netta impressione di disparità: la matrice che li muove è la stessa, ovvero l’ambizione di esercitare il controllo su ciò che invece, per dirla come Susan Sontag, non è controllabile, ma i mezzi e le risorse per trovare sollievo variano a seconda del portafoglio. O’Connell li passa tutti in rassegna nelle loro disuguaglianze: visita i forum online dei prepper americani che si scambiano suggerimenti su come stoccare le scorte di cibo e su come difendere la loro proprietà privata dai saccheggi e dalle devastazioni che accompagneranno gli ultimi giorni dell’umanità, si mescola ai turisti del disastro a Chernobyl, per cercare nel passato segnali del futuro che verrà, viaggia nelle pianure desolate del Dakota del Sud dove un immobiliarista senza scrupoli sta edificando bunker antiatomici per clienti facoltosi. E poi, sempre più in alto, c’è la figura enigmatica di Peter Thiel, cofondatore di PayPal e azionista di Facebook, punta di diamante della nuova classe dirigente della Silicon Valley: per sottrarsi in anticipo ai disordini causati dalla società in declino, ha acquistato un’immensa proprietà in Nuova Zelanda, la nuova mecca dei miliardari in cerca di un rifugio sicuro dal futuro prossimo.
Il denominatore comune di queste scritture sembra essere l’angoscia del presente, mescolata alla nostra impossibilità d’azione di fronte a ciò che con un po’ di benevolenza potremmo ancora definire “la grande sfida cui siamo chiamati”. Il punto da cui non riusciamo a muoverci è proprio questo, e aleggia in ognuna delle pagine discusse qui sopra: si può davvero parlare di “grande sfida” o abbiamo perso in partenza? E ancora: in che direzione conviene declinare il nostro infinitesimale impegno quotidiano, se la speranza è tramontata? Al di là dei proclami e delle buone intenzioni, le prospettive di medio termine che ricaviamo dai processi di cambiamento climatico non lasciano spazio a molti dubbi. Nei prossimi anni, se finalmente la pandemia allenterà la sua morsa, avremo tempo per leggere, informarci e riflettere, almeno per capire come comportarci al meglio una volta che il collasso del pianeta entrerà nel vivo. E mentre noi riflettiamo, una risoluzione – qualsiasi essa sia – si avvicina sempre di più.