Foto di gruppo con ossessa
di Giovanna Fiume
Fernanda Alfieri
Veronica e il diavolo
Storia di un esorcismo a Roma
pp. 371, € 21,
Einaudi, Torino 2021
Dal 23 dicembre 1834 per sei mesi la diciannovenne romana Veronica Hamerani viene esorcizzata dal gesuita François-Antoine Kohlmann; le fasi dell’“esorcisazione” sono annotate in un Diario, il cui fortunato ritrovamento offre a Fernanda Alfieri la fonte archivistica da cui prendere le mosse. Attorno al letto della giovane posseduta, oltre all’esorcista, si avvicenda una piccola folla di coresidenti (il padre, la madre, lo zio), di visitatori assidui (il parroco, i gesuiti tra cui Francesco Manera e Tommaso Massa, il medico Andrea Belli) e di curiosi occasionali (un medico inglese, un sacerdote irlandese, un canonico di Vienna, un monsignore anglo-spagnolo, un botanico). Tutti ne traggono opinioni discordanti: per l’esorcista si tratta senza dubbio di possessione diabolica, per uno dei gesuiti di finzione, per i medici di isteria, per altri dell’effetto di una fattura operata da una certa “Francesca marchigiana” a lei e alle sue due sorelle che ne sarebbero infatti in tempi diversi morte; infine, alcuni anonimi avanzano l’ipotesi che la giovane voglia in tal modo coprire una tresca sentimentale. Veronica manifesta sintomi quali urla, grugniti, fischi, voci diverse, scuotimenti parossistici, vomito, rabbia contro l’esorcista, sputi, insulti, ingiurie ai presenti, gesti autolesionistici. I rimedi applicati consistono nell’acqua santa, apposizione di reliquie o della stola sul capo, orazione, meditazione, esame dei peccati, confessione, comunione, discipline e cilicii; la si lega a una sedia per farla assistere alla messa, la si insegue per tutta la casa, trascinandola per le gambe fino all’altare. L’umiliazione e la mortificazione avevano sin dall’infanzia fatto parte del metodo educativo del padre Giovanni, applicato a tutti i figli affinchè nessun capriccio o impulso li sottraesse all’ubbidienza. Che l’ossessione di Veronica covasse l’indisciplina? Che volesse “sottrarsi alla legge dei padri”?
La domanda diventa perciò: quali occhi hanno osservato Veronica? Con quale bagaglio tutti questi testimoni si sono presentati al suo capezzale? Il libro risponde ricostruendo le prosopografie dei principali personaggi grazie a una nutrita serie di fonti – della Compagnia di Gesù, atti notarili, stati delle anime, resoconti di viaggiatori stranieri, annotazioni metereologiche, dipinti dei paesaggisti, corrispondenze private, mappe catastali e atti di un processo di canonizzazione – che tessono un contesto densissimo capace di offrire la chiave per comprendere il caso, sia nella dimensione della piccola scala, sia in riferimento agli eventi epocali – la fine dell’antico regime, la bufera napoleonica, le repubbliche cisalpine, tra l’abolizione e la restaurazione della Compagnia di Gesù – di cui i nostri personaggi sono attori e vittime. Il risultato è sorprendente: la massa delle conoscenze acquisite (di certo anche negli studi precedenti) non si riversa nelle prevedibili note a piè di pagina, con l’indicazione della provenienza di ogni singola citazione o conoscenza; vinta l’iniziale sorpresa e la diffidenza il lettore soddisferà solo in fondo al libro, ma non in maniera canonica, la curiosità circa i riferimenti bibliografici e archivistici; senza questi vincoli e costrizioni il testo acquista un andamento fortemente narrativo e risulta di avvincente lettura. A ogni pagina del Diario si accompagna la ricostruzione della biografia di uno dei presenti, mostrandocene famiglie e luoghi dove furono bambini (spesso orfani), poi studenti, infine soldati di Ignazio, insegnanti nei Collegi o missionari portati dal vento della vocazione, dall’universalismo della chiesa e dalle travagliate vicende della Compagnia. Anche queste biografie però sono restituite in modo frammentato, ridotte a tessere di un puzzle; partono dal 1834 e risalgono indietro nel tempo, hanno un “prima” che ha un altro “prima” nella vita di chi li ha preceduti. “E tutti questi inizi hanno trovato ospitalità in quella stanza perché è la materia di cui tutte quelle persone sono fatte”.
Le ricchezza documentaria che l’autrice padroneggia con competenza e sensibilità le consente di descrivere, ad esempio, la sera del 23 dicembre 1835 come leggermente nuvolosa con freddo intenso e aria secca, il tragitto dei due gesuiti lungo il vicolo stretto tra Campo dei fiori e il ghetto fino a via di sant’Anna, l’ingresso della casa, il corridoio, la rampa di scale, il salotto, lo studiolo fino alla camera da letto della giovane, grazie alla sovrapposizione di cronache metereologiche, stati d’anime e mappe catastali. Lo stesso accade per i luoghi dove i personaggi della vicenda hanno soggiornato: l’antico borgo alsaziano della famiglia di vignaiuoli e bottai dove è nato Kohlmann, con le case del borgo-fortezza, la chiesa, la bettola, le vigne, il bosco; Genzano, borgo di tremila anime sul lago di Nemi nella campagna romana, dove gli Hamerani hanno ricevuto una casa in eredità e dove sarebbe avvenuto il presunto maleficio; Bologna – che è “tutto un andare e venire di forestieri invasori: i francesi, poi per un breve tratto gli austriaci e poi ancora i francesi” – dove la famiglia di padre Massa traffica in spezie, accanto ad altre botteghe di cui si descrivono inquilini e prodotti; la bottega dei “sublimi cesellatori”, incisori di monete e medaglie della famiglia Hamerani, ben nota a numismatici e storici dell’arte, grazie agli inventari redatti al momento del fallimento dell’attività; il pueblo di Graus nei Pirenei nel cui collegio Massa insegna quando lo sorprende la Costituzione liberale del 1812 e l’espulsione del suo ordine.
La ricerca ha portato l’autrice in un laico pellegrinaggio nei luoghi attraversati dai suoi personaggi e il soggetto investigante si fa parte del racconto: a Napoli ha “voluto vedere dove padre Manera aveva coltivato la sua bravura e la sua angoscia”; a Bologna “so – scrive – dove viveva Tommaso (Massa ndr) e posso supporre di avere messo i piedi sul pavimento che anche lui aveva calpestato”; a Graus sui Pirenei cerca il Noviziato dei gesuiti che però ha lasciato solo il nome di una stazione della metro e, abbattuto il collegio, le sue pietre sono state usate per pavimentare le strade di un comune vicino; a Kaiserberg, città natale di Kohlmann, “dove si arriva con una corriera di linea”; al cimitero di Roma alla ricerca della tomba di Veronica, avendone rintracciato il testamento dopo sette anni di ricerche.
È abbastanza frequente che gli storici si occultino dietro i personaggi e le vicende narrate, al fine di valorizzare la caratura scientifica della propria ricostruzione, usano forme verbali in terza persona – un’intera generazione di storiche si è misurata con la difficoltà di scrivere “io” –, tengono a freno l’empatia onde esercitare una giusta distanza critica; Alfieri si frammischia ai personaggi, lascia trasparire i suoi sentimenti nei loro confronti, mette in gioco la propria corporeità nel parlare di fragranze e tanfi, freddo e caldo, luce e buio, rumori e silenzi. Usa sguardi multipli per descrivere luoghi, personaggi e circostanze, fino a quelli immaginari del topo e dello scorpione che da sotto il canterano assistono ai furti domestici dei custodi della casa di Genzano. Dichiara di procedere per congetture, ma si arrischia a immaginare: gli odori delle botteghe, il chiasso dei collegiali, i silenzi dei novizi, “il bisbigliare di orazioni e giaculatorie” nelle carrozze che portano il clero in fuga dalla Francia rivoluzionaria, la fisionomia di Veronica (“potrei darle un incarnato chiarissimo, un ovale dolce con guance leggermente piene”). Al di là di questo confine resta il limite del “nessuno sa”, del “non si potrà mai dire”, sino al sogno che le suggerisce che la ricerca è finita e deve separarsi da Veronica.
Oltre a Veronica e ai suoi familiari, i protagonisti della vicenda sono i gesuiti, travolti dalla restaurazione nel 1814, dopo lo sconvolgimento della soppressione nel 1773: sono superstiti, reduci ormai anziani (alcuni decrepiti), malinconici già prima della diaspora (lo studio, d’altronde, rende malinconici per il “sovraccarico del pensiero, prosciugati dalla solitudine, impigriti dalla sedentarietà”): “molti vecchi erano caduti nella malinconia e si erano lasciati morire”, qualche giovane aveva lasciato l’abito. Sballottati come naufraghi tra stati italiani, Spagna, Francia, Lettonia, Russia e fin nelle Americhe (padre Kohlmann va a Baltimora, poi diventa vicario a New York e amministratore di una piantagione nel Maryland) e infine spiaggiati a Roma. Coprotagonisti sono i medici, sia per l’importanza delle malattie e delle epidemie nel periodo in questione, vaiolo e colera in primis, sia per la transizione dalla teoria degli umori – che nel funzionamento del corpo umano aveva assegnato il primato al cuore – alla teoria che riconosce il primato del cervello e assegna ai nervi il decisivo ruolo, mentre gli “alienisti” teorizzano l’isteria e la “mania religiosa”. Sarebbe stato utile dare uno spazio maggiore alla trattatistica sull’esorcismo e al legame con la pratica inquisitoriale che l’accenno ai diavoli di Loudun non basta a soddisfare, così come non a Benedetto XIV risale la “chiamata” della medicina a distinguere il naturale dal soprannaturale, che è all’opera sin dal primo Seicento. Religiosi e scienziati contribuiscono a che il corpo di Veronica sia “scomposto, ingrandite le parti, osservato da vicino, da lontano, da un lato e dall’altro”, finchè il generale dei gesuiti non decide d’imperio la fine dell’intervento esorcistico. Un vergognoso smacco per l’ordine – con la contrarietà di Kohlmann (si può pensare che l’esorcista sia stato raggirato da una adolescente? O che la chiesa abbia perso una battaglia contro il demonio?) – e un’onta per la stessa giovane che, se non è ossessa, non resta che considerare matta con gravi ripercussioni sul suo destino.
giovanna.fiume@unipa.it
G. Fiume ha insegnato storia moderna all’Università di Palermo