recensione di Francesco Capello
Riccardo Gasperina Geroni
Cesare Pavese controcorrente
pp. 112, € 12
Macerata, Quodlibet, 2020
Il settantesimo anniversario della morte avrà certo contribuito a risvegliare l’interesse dei critici per Pavese: l’impressione è però che ricorrenze e commemorazioni non bastino a spiegare il periodico bisogno di rifare i conti con una figura rimasta per molti versi elusiva. Inevitabilmente, a interrogarci ancor oggi resta il fondo opaco da cui scaturì a Pavese la scelta estrema di morire; non estranee al suicidio, ma più rilevanti per il lettore contemporaneo, sono ad ogni modo le questioni fondative e inquietanti con cui egli scelse di misurarsi nella sua opera. È proprio nel tentativo di accostarsi al nucleo scottante di Pavese uomo e scrittore che il revival critico degli ultimi anni ha concentrato l’attenzione sul versante antropologico del suo pensiero: indagando ad esempio l’importanza del suo interesse per l’etnologia e la psicoanalisi; i retroscena e le implicazioni del rapporto con Ernesto De Martino; il legame tra la sua idiosincratica teoria del mito e il controverso rapporto con la politica. In questo filone di studi si inserisce ora l’agile volumetto di Riccardo Gasperina Geroni, Cesare Pavese controcorrente.
Gasperina Geroni prende in esame un nodo pavesiano fondamentale, il tema ricorrente delle origini e della liminarità, e conduce la sua analisi con acume e verve argomentativa. Come annunciato dal titolo, il suo saggio percorre cronologicamente a ritroso l’itinerario intellettuale ed esistenziale di Pavese – senza peraltro farsi scrupolo di sottolineare la saldatura tra i due aspetti. Una presa di posizione che parrà scontata, ma che è invece essa stessa “controcorrente” rispetto a diffuse impostazioni critiche radicalmente antibiografiche. Si inizia così con la lettura di uno dei Dialoghi con Leucò più noti, L’inconsolabile (1947), terminata la quale il filo del discorso si riavvolge al 1941 di Paesi tuoi e alle poesie di Lavorare stanca (1936): due esordi, in prosa e in versi, a cui Gasperina Geroni dedica le sezioni più articolate del libro. Il breve epilogo, che risale fino al 1932 della traduzione di Moby Dick, chiama invece in causa il rapporto del Pavese americanista con Melville e con le vicende di Achab: una parabola esistenziale, quella del capitano, nel cui arco ossessivo già Borges aveva visto compiersi «il processo di un occulto e intricato suicidio».
L’analisi degli aspetti (talora sotterranei) di continuità tra il Pavese dei tardi anni ’40 e quello d’anteguerra rappresenta uno dei meriti principali del volume: a fronte di trasformazioni evidenti nello stile e nei contenuti, la qualità pervasiva e durevole dell’«ossessione dell’origine» non era ancora stata adeguatamente messa in luce. Ancor più importante pare l’attenzione riservata qui al rapporto tra le polarità antinomiche caratterizzanti il pensiero e la discorsività di Pavese e il suo tentativo (consapevole e generoso, ma fallito) di integrarle dialetticamente. Quello della dialettica, in particolare tra indifferenziato e forma, è un nodo centrale le cui diramazioni culturali e letterarie meritavano forse almeno un cenno – a cominciare dalla ricezione da parte di Calvino. Erede diretto degli spinosi interrogativi lasciati in sospeso dall’amico e mentore, quest’ultimo fu infatti impegnato per tutta la vita a elaborarli, dando forma nel tempo (e non di rado muovendo dal tema delle origini) a una teoria letteraria del pensiero fondata proprio sul ruolo salvifico della dialettica. Colpisce che Gasperina Geroni abbia escluso dalla sua analisi la lunga fase del rodaggio poetico pavesiano, coincidente grossomodo con il decennio che precede la pubblicazione di Lavorare stanca. Si tratta di una zona cieca di un certo rilievo. E non solo perché, lasciati caritatevolmente inediti dal loro autore, quei versi rappresentano pur sempre la culla della sua ispirazione: ma più ancora perché, intrisi come sono di sensibilità decadente, essi avrebbero consentito di seguire il filo che (intrecciato ad altri, per così dire, meno “neri”) porta dagli anni ’20 dell’adolescenza ai vistosi ritorni di fiamma dannunziani del Taccuino segreto, di Feria d’agosto e oltre. È certo una consonanza, quella con D’Annunzio, la cui radice non si può ricondurre ad affinità ideologiche o a scelte formali: affonda in uno strato del sentire più antico in cui estetica e politica ancora non si distinguono. Occorre aggiungere che, di questa «terra rossa, terra nera» assetata di sacrifici, Gasperina Geroni non manca di rilevare l’importanza per Pavese: vero è però che, prima che questi ne rimanesse infine vittima, quel terreno era stato abbondantemente dissodato e coltivato da D’Annunzio e dai suoi epigoni più o meno riconosciuti. Sto parlando del fascino sensuale per la totalità che a tratti soggioga individui e moltitudini: di quell’area del sentire umano e della vita psichica in cui ogni possibilità di dialettica si eclissa, e il pensiero viene meno.