Apologo sull’incertezza
di Daniela Daniele
Don DeLillo
Il silenzio
ed. orig. 2020, trad. dall’inglese di Federica Aceto,
pp. 103, € 14,
Einaudi, Torino 2021
Sin dal suo esordio, avvenuto nei primi anni sessanta sulle stesse riviste su cui anche Thomas Pynchon si affacciava sulla scena letteraria, Don DeLillo ha sempre osservato la tecnocultura americana in tutte le sue epocali trasformazioni. Nelle sue narrazioni sospese tra fatto e finzione, tra pubblico e privato, il suo connubio di realismo sociale e di esplorazione modernista degli spazi interiori di percezione è una corposa risposta postmoderna al grande romanzo della tecnica di John Dos Passos, di cui per anni ha condiviso l’ambizione di raccontare la storia collettiva americana sperimentando nuovi linguaggi e poetiche. L’ingresso traumatico nel nuovo millennio con l’attacco al World Trade Center ha tuttavia drasticamente ridotto la vocazione massimalista dei grandi affreschi storici che, da Libra (1988) a Underworld (1997), hanno fatto la fortuna dell’autore, come se, a cavallo dei due millenni, quest’ultimo avesse identificato in una forma più lirica ed epigrammatica la chiave più giusta per raccontare il presente. The Body Artist, uscito nel febbraio del 2001, e cioè solo pochi mesi prima della sciagura dell’11 settembre, già preannunciava una nuova scrittura in grado di raccontare in forma di prosa poetica un lutto privato, avviandosi verso un’auscultazione ravvicinata del trauma con cui ci ha accompagnato, nel quadro di sei finissimi romanzi brevi, nell’era del terrore.
Recente è l’uscita, per Einaudi, del romanzo Il silenzio, con la disinvolta traduzione di Federica Aceto che qui conferma scioltezza lodevole, sebbene non sempre attrezzata, diversamente dalla Marisa Caramella di Body Art, a scandire le nuove catatonìe e l’assetto prosodico che l’autore ha scelto in questa fase più sperimentale della sua scrittura. Nel loro lirismo modernista, tutti e sei i romanzi appartenenti ai suoi ultimi ritratti d’interno percorso dal trauma, conoscono una scansione incantatoria e un lessico asciutto, sbozzato ma pieno di echi, che avrebbe richiesto parafrasi meno agili e un orecchio più allenato alle risonanze allitterative che troviamo nella versione originale. Si è detto spesso che i romanzi di DeLillo racchiudono preziose, oscure premonizioni, e anche Il silenzio indaga lo stato di paralisi e di oscuramento generalizzati dovuto a un improvviso blackout che molto ricorda le serrate imposte dal covid 19. Nel risvolto di copertina dell’edizione originale, l’editore sottolinea di aver ricevuto il dattiloscritto di DeLillo solo un mese prima dell’allarme pandemico, anche se il blackout globale narrato in quest’opera riproduce fedelmente il forzoso abbandono delle strade, e l’incredulo ritrarsi in interni domestici che ha progressivamente allontanato l’autore dallo studio delle masse (sia mediatiche che militanti). In questo apologo sull’esaurimento entropico dell’energia sociale, il televisore non lancia segnali dinanzi a spettatori abituati a fissare inebetiti anche i loro cellulari morti. Insomma, in queste pagine, è ormai lontana la Cosmopolis frenetica ritratta nel 2003 nella sua espansiva new economy, che pare essersi arrestata di colpo, avvolgendo in un silenzio spettrale due sopravvissuti costretti ad atterraggi d’emergenza, che si aggirano per le strade deserte, non diversamente dagli scampati inceneriti tra le rovine del World Trade Center nel romanzo L’uomo che cade (2006).
DeLillo è un maestro nel catturare il sentire profondo del suo paese, e racconta la brusca sospensione che segue al trauma attraverso una narrazione dal ritmo inceppato di inusitata lentezza e laconicità. Questa scelta paratattica, stralunata e irrevocabile produce un mutamento di passo, a cui – da cronista del presente – l’autore ci chiama ad adattarci, in antitesi con il senso assordante di saturazione semiotica in cui ci ha proiettato in Rumore bianco (1985). A quel ronzio insistente ora sostituisce il silenzio dell’attesa di sviluppi noti ma non progressivi che, nell’attuale pandemia, si traducono in una meditazione allegorica sul tempo, svincolato dal mito modernista dell’accelerazione tecnologica. Da queste catatonìe, sempre più esuberante, sentiamo la voce del DeLillo pensatore che, pur avendo disperso in passato la sua prospettiva nel dialogo fra i personaggi, qui, invece, trova inediti spazi di riflessione onnisciente. Anche nel romanzo Il silenzio si alternano le voci di cinque convitati che, in toni diversi, s’interrogano sulla stretta interazione tra umano e postumano, in un racconto che, nella sua inclassificabilità di genere, prende a tratti la struttura drammatica di una conversazione alternata a brevi quadri d’interno che rinnovano lo studio sotterraneo della percezione inaugurato da Virginia Woolf e James Joyce. Proprio a Finnegans Wake, che è il più poetico e misterioso dei romanzi di Joyce, Il silenzio dedica un rimando citazionale eloquente e tracciabile, che Aceto preferisce non tradurre pur avendo a disposizione accreditati predecessori.
Il gruppo di amici che provano a dare un senso allo smarrimento di un blackout totale che è forse persino globale, avrebbe voluto ritualmente assistere, almeno nelle intenzioni, al Super Bowl. Ma alla festosa finale di football non trasmessa si sostituisce la necessaria sospensione dell’evento simbolo che tiene assieme un’intera nazione, proprio come il mitico spareggio di baseball del 1951 su cui si era epicamente aperto Underworld. Le folle americane adunate davanti all’evento sportivo per esprimere un sentire e un pensiero comune (ne scrisse Stefania Piccinato in un saggio: Lo sguardo nella palla: Henry James e Don Delillo, Edizioni Scientifiche Italiane 2004), escono di colpo dall’inquadratura di schermi neri che il guasto tecnico sottrae bruscamente allo sguardo, quasi a prefigurare la fine della società dello spettacolo e del racconto della storia di una nazione. Ad accentuare lo straniamento che precede questo spossessamento appaiono sugli schermi i segnali spasmodici e intermittenti dei codici di programmazione, rilasciati dai dispositivi in panne, con il loro assemblaggio di segni e di alfabeti ignoti ai più. In altri termini, nella visione apocalittica e post-traumatica di Il silenzio, il grande romanzo della storia americana del Novecento con cui l’autore aveva raccontato, tra pubblico e privato, la guerra fredda a partire dagli omicidi in diretta di JFK e del suo presunto assassino, si riduce alla disamina fenomenologica di un riorientamento verso un ordine transnazionale di cui sono espressione criptica e universale proprio i linguaggi di programmazione. Martin, il giovane filosofo più eloquente tra gli altri personaggi ammutoliti, individua in essi un esperanto che unisce in simultaneità, lungo le oscure ramificazioni del Deep Web, operatori invisibili che lanciano le loro istruzioni da emisferi lontani. Questi segnali “extraterrestri” sono in linea con una terza guerra mondiale combattuta con la biochimica e gli hackeraggi, in un ordine globale che rende anche il polo Oriente/Occidente un binomio semplicistico già posto in questione dal volto greve delle nuove folle dottrinali che uniscono fondamentalismo e shock economy.
In questo panorama che, nella sua asimmetria, appare sempre più resistente alle congetture e ai complotti, facilmente trionfano la paranoia e l’entropia pynchoniane. Ma, proprio come Pynchon, DeLillo è un grande maestro del contrappunto e, accanto alle speculazioni ancora cariche di eroi e di ideologie novecentesche (da Marx a Einstein), fa risaltare, nel silenzio surreale di un interno newyorkese, forme di comunicazione meno cerebrali, alla ricerca di ciò che resta di permanente e nello sforzo di raccontare impulsi e percezioni che mantengono ancora vivi i legami sedimentati, a prescindere dall’incompatibilità apparente di temperamenti e opinioni. Solo una prosa poetica può raccontarci questi slittamenti della comunicazione. Questo genere di matrice francese su cui è appena uscito un nuovo volume a cura di Mary Ann Caws e Michel Delville (The Edinburgh Companion to the Prose Poem, pp554, € 182,75, Edinburgh U.P., 2021), è la forma ibrida e lirica con cui l’autore cerca motivazioni politico-strategiche all’impasse del momento, mostrandoci tuto il nostro disadattamento davanti a uno schermo o a un monitor che di colpo smette di parlare e pensare al nostro posto. Max, da pragmatico amministratore di condominio, continua a fissare lo schermo buio in beckettiana attesa di un segnale noto; Tessa, la poetessa creola, s’inoltra, attraverso oscuri aforismi e versi sbozzati, in quello che definisce a tumbling void. Aceto traduce l’ossimoro di questo vuoto turbolento con “un vuoto barcollante”, rinunciando al potere allitterativo e onomatopeico dell’espressione, a cui il romanzo intenzionalmente infonde la forma di un verso poetico. Nella conversazione tra ineguali ritroviamo l’eco assurdista del teatro televisionario dell’autore, il quale, da The Day Room (1986) a Valparaiso (1999), rimanda al nonsense di Beckett e Ionesco, su una scena in cui il televisore è permanentemente acceso, oppure dolorosamente incarnato da un attore che blatera a vanvera, costretto in una camicia di forza.
In questa breve ma profonda divagazione su un tempo della tecnica che non può più progredire, per indicare le sue innumerevoli disfunzioni tecniche, in inglese l’immagine del blackout si sovrappone a quella di un power failure che omofonicamente risponde non solo a un’avaria temporanea ma una perdita di connessione e di governance sul nostro futuro digitalizzato. Il suo arresto riflette i diversi volti disfunzionali dell’homo digitalis: dall’inebetimento davanti all’improvvisa chiusura di ogni canale al dubbio che durante il guasto sia stata effettuando una generale “rimasterizzazione” delle coscienze, alla risposta più creaturale della coppia dei sopravvissuti all’incidente aereo che, per una volta, sollevano gli occhi dai loro cellulari debitamente muniti di codice segreto, per tornare a guardarsi negli occhi e a chiedersi: “Abbiamo paura?”.
La parte stilisticamente più felice di quest’apologo sull’incertezza sta proprio nell’invariabile, tragica dislocazione tra impulso e intelletto maturata in anni di pratica digitale. Come Einstein che, nell’epigrafe del volume, vede profilarsi una quarta guerra mondiale fondata su un primitivo corpo a corpo tra contendenti armati di pietre e bastoni, nel blackout del romanzo Il silenzio i corpi e la fisicità assumono una nuova, inusitata centralità, quasi a tentare una lenta riabilitazione dallo sfasamento e dall’afasia prodotti nell’attesa di impulsi sempre più traumatici provenienti dall’etere. Dietro questo quadro distopico persiste l’impietosa satira della tecnocultura americana a cui ci ha iniziati la generazione letteraria dell’autore – quella pacifista e dei movimenti dei diritti civili degli anni sessanta – oggi alle prese con le disfunzioni dei collegamenti a reti unificate. Lo schermo che non rilascia segnali è vicinissimo a quello sfondato e abbandonato tra i rifiuti nel pieno delle rivolte razziali di Watts di cui scrisse nel 1966 Thomas Pynchon in un articolo sul “New York Times”, e proposto proprio dall’“Indice” (1999, n.4).
Se il romanzo postmoderno della tecnica ci ha finora raccontato l’elettronica di radar invariabilmente usati nell’ultimo conflitto mondiale per alimentare transistor e sistemi di intercettazione missilistica, anche nell’oggi esso non smette di dichiarare la sua autentica ispirazione umanistica, come mostra l’immagine apertamente luddista adottata da Pynchon davanti al dissesto postindustriale.
C’è un brano del romanzo affidato a una voce poetica, femminile e meticcia, la quale si chiede se l’immobilità entropica che scorge tra le faglie del sistema telematico non sia di fatto un’opportunità preziosa per recuperare una dimensione privata perduta, che i reality show hanno provato a violare. Nella varietà di reazioni – creaturali, cerebrali, sensoriali, erotiche, pragmatiche – prodotte dalla sospensione di contatti causata dal guasto telematico, ci arrivano distinte le parole del narratore onnisciente che vede le strade rianimarsi: “La gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, s’interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito. E non è strano il fatto che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico? Alcune persone, sempre e solo alcune, un numero minuscolo di abitanti umani del pianeta terra, il terzo pianeta più vicino al sole, regno dell’esistenza mortale”.
danadaniele@libero.it
D. Daniele insegna lingua e letteratura angloamericana all’Università di Udine