recensione di Mauro Maraschi
Camilo José Cela
La famiglia di Pascual Duarte
trad. dallo spagnolo di Salvatore Battaglia,
pp. 142, € 16
Utopia, 2020
Vincitore del Premio Nobel nel 1989, acclamato in patria e tradotto in tutto il mondo, lo scrittore spagnolo Camilo José Cela (1916-2002) è stato pubblicato in Italia già a partire dal 1955, da Aldo Martello, e poi da Frassinelli, marcos y marcos ed Einaudi (che ha proposto La famiglia di Pascual Duarte soltanto nel 2004, a sessant’anni dalla sua uscita in Spagna). Eppure, fino a oggi, in Italia non era ancora riuscito a conquistarsi il meritato spazio sugli scaffali delle librerie, né di conseguenza nell’immaginario del lettore medio. I motivi di questa mancata consacrazione italiana, però, sono da cercarsi unicamente in determinate dinamiche editoriali e non certo nelle qualità dell’opera di Cela, che appare raffinata, robusta, stratificata e coerente. Ci troviamo, certo, di fronte a un immaginario spaventoso e respingente, che non va però ridotto a una visione pessimistica della vita bensì accostato al sentimento dell’assurdo nella concezione di Camus: è una coincidenza, ma Pascual Duarte e Lo straniero uscirono lo stesso anno, nel 1942, e le confessioni dei loro protagonisti contengono non pochi punti di congiunzione, tra cui il ruolo cardine ricoperto dalla figura della madre. Ma se Meursault riferiva di un solo omicidio, Duarte consegna al suo memoriale una vera e propria carneficina.
Superati i cinquantacinque, dietro le sbarre e in attesa della pena capitale, Duarte ha deciso di mettere la propria vita nero su bianco con un intento forse auto-assolutorio, ma a conti fatti peggiorando la propria posizione sia agli occhi della legge che a quelli del lettore. Duarte comincia con la descrizione dell’ambiente famigliare in cui è cresciuto: il padre violento, la madre abbietta, la sorella sventurata, il fratello disabile morto prematuramente e i tanti, troppi eventi orrorifici che ne hanno inficiato il senso della realtà. A scandire il tempo sono nascite che implicano più spesso una morte che una nuova vita, e che spingono il protagonista verso una crescente repulsione per la natalità stessa: «ricordo perfettamente la sgradevole impressione che mi fece la mia sorellina non appena la vidi appiccicosa e arrossata come un gambero cotto; […] le manine rigonfie e così lustre che facevano un certo ribrezzo solo a guardarle»; «se avessi avuto un figlio con la stessa sventura di Mario lo avrei strozzato per risparmiargli le sofferenze»; «quel parlare e riparlare della creatura, a poco a poco, insensibilmente, cominciava a rendermela odiosa»; e ancora, soprattutto: «No; non potevo perdonarla solo perché mi aveva partorito. Col mettermi al mondo non mi aveva fatto nessun favore, assolutamente nessuno…» Non a caso, Duarte comincia a sfogare la propria natura violenta dopo la prima gravidanza di Lola, in un climax di crimini sempre più violenti e insensati dei quali non si assume mai la piena responsabilità, addebitando ogni cosa alla “sorte”. Cela lo asseconda in questa deformazione della realtà fin dalla scelta del titolo, che recita appunto “La famiglia” e non “La vita”, come se la condotta di un individuo, per quanto abominevole, fosse inestricabile dal nucleo di origine e, a sua volta, dal male congenito nell’umanità tutta, un male ereditabile, inevitabile, naturale. Eppure tutto ciò non costituisce un’attenuante di stampo sociologico. È vero che Pascual Duarte vede la luce a pochi anni dai tragici eventi della guerra civile (1936-39) e che in qualche modo ne cavalca le ripercussioni mostrandoci senza pietà il degrado di realtà contadine abbandonate a sé stesse e dominate da ignoranza, miseria e passionalità bestiali. Al contempo, quella di Cela non è una poetica astratta impiegata nella creazione di parabole universali, bensì una rielaborazione del reale priva di compromessi, lontana dalla metafora quanto dagli psicologismi, nella quale i fatti sussistono al di là della valenza simbolica. Un approccio così straniante, ai tempi (ma anche oggi), da aver dato vita al movimento letterario neorealista del tremendismo.
La famiglia di Pascual Duarte è un’avventura pseudo-picaresca implacabile, satura di disgrazie e dal ritmo moderno, da cui è difficile cavare qualsiasi morale. Cela dimostra di padroneggiare gli strumenti dell’intrattenimento a partire dall’uso efficace dell’espediente del manoscritto ritrovato, ma anche tutte le volte che gioca sull’anticipazione, opera ellissi di eventi fondamentali o si accanisce su tensioni secondarie, oppure fa leva sulla contraddittorietà di un protagonista diabolico che osserva con sensibilità la crudeltà altrui (“i cinque micini appena nati che vengono affogati nel secchio”). Cela dota consapevolmente il suo protagonista di un’etica contraddittoria (“Ma non si può uccidere così; è da assassini”) e di una prosa fin troppo piacevole per essere sgorgata dalla penna di un pluriomicida privo di istruzione, una prosa che da un lato stride con il realismo ma dall’altro rende Duarte un personaggio memorabile. E alla fine, a proposito di Duarte, Cela fa dire a un personaggio: “circa la sua salute mentale non mi sentirei di giurare […], perché faceva cose che dimostravano chiaramente la sua infermità”; ma ciò avviene soltanto dopo che per duecento pagine il lettore ha guardato il mondo attraverso gli occhi di Duarte ed è stato egli stesso, per duecento pagine, il peggiore degli assassini.
La famiglia di Pascual Duarte è stato il secondo titolo proposto dalla casa editrice Utopia, nata a Milano nel 2020 dall’idea di Gerardo Masuccio, poeta e già curatore della collana CapoVersi di Bompiani. La casa editrice, nelle parole del suo fondatore, nasce con l’intento di pubblicare “solo letteratura alta, senza compromessi”, superando “la classica ripartizione italiana-straniera”, “spostando il perimetro intorno all’intera Europa” e “prestando attenzione a rotte linguistiche trascurate”. Elemento non secondario per una piccola realtà, Utopia è stata distribuita fin da subito in modo capillare a livello nazionale, grazie anche a un progetto ben presentato già a partire dalla veste grafica. Ha già ospitato, tra gli altri, Massimo Bontempelli e Anne Carson, e per i prossimi anni ha previsto nel piano editoriale la pubblicazione di tutte le opere di Cela.