Intervista ad Adriano Prosperi di Giuseppe Sergi
Leggendo il tuo libro mi sono reso conto che la mia reiterata polemica contro chi parlava di “crisi della storia” si fondava su un equivoco: io pensavo alla ricerca storica – che negli ultimi anni mi sembrava in salute – mentre la crisi che tu denunci è scolastica, sociale, mediatica. Ma che cosa pensi delle migliaia di persone che assistono ai vari festival storici e al gran numero di spettatori delle trasmissioni televisive dedicate alla storia?
Le ritengo occasioni importanti per alimentare intelligenze disponibili e curiosità vive che esistono sempre e non possono essere soddisfatte dalla razione controllata di informazione scolastica o di esami e lezioni universitarie. Altra cosa ancora è la ricerca storica quando è capace di trovarsi i suoi lettori, cioè quando gli storici sanno conquistarseli coi libri senza farsi inaridire chiudendosi nel piccolo circuito accademico. Ma si potrebbero anche ricordare altre forme di consumo culturale che concorrono nell’aprire le menti alla realtà storica di altri mondi e in altre culture, come la scrittura d’invenzione, la narrativa. Resta però il fatto che viviamo in un contesto dominato dall’oblio della storia. Lo spiegò molto bene Eric Hobsbawm e lo disse finché potè Tony Judt.
Anatole France sosteneva che “tutti i libri di storia che non contengono menzogne sono mortalmente noiosi”; Paolo Viola, il compianto contemporaneista con cui tu hai collaborato, in un dibattito pubblico mi obiettò che il successo di pubblico della storia medievale non contava, perché quella era evasione e non impegno. Si può dire che leggende e luoghi comuni da un lato alimentano la domanda di storia meno qualificata, dall’altro nascondono visioni anche politiche del passato?
I libri di storia possono non essere divertenti nel senso di procurare evasione ma in cambio possono essere veramente appassionanti perché permettono di capire, di dissipare menzogne diffuse, di far guardare con occhi diversi alla realtà del mondo e delle persone. Penso che la rinunzia di Manzoni al romanzo offra un buon esempio di quello che accade allo studioso di storia quando entra nella vita, nelle idee, nel mondo di altri esseri umani vissuti prima di lui. Quella dell’odore di carne umana (evocato da Marc Bloch) è un’esperienza che una volta fatta non si dimentica più.
Tu dichiari che la riflessione di questo libro si occupa della storia come narrazione, quella su cui più in passato sono intervenuti i soggetti impegnati nella deformazione del passato (chiesa, nazioni…). Ma ricordi anche tappe che hanno determinato gli sviluppi della storiografia moderna (come Mabillon, con l’antiquaria e la diplomatica; come la “storia dei senza voce” di Michelet) e approdi significativi: Burckhardt con i “ricorrenti intrecci e contrasti fra stato cultura religione” e soprattutto – progresso ulteriore – Bloch con la sua “scienza degli uomini nel tempo”. Perché secondo te l’approdo attuale, pur con i suoi meriti scientifici, risponde poco alla domanda sociale di storia? Il positivo abbandono dell’idea di storia come progresso permanente risponde poco a quella domanda?
Se si tratta di sottoporre il mio libretto all’esame di un docente di storia per quello che non ha detto sulla lunghissima storia della storiografia mi arrendo subito. Ricordo solo che il mio tema è la critica della condizione presente del posto occupato dallo studio e dalla conoscenza della storia nella società e nella scuola. Il rapido schizzo storiografico – dove ho ricordato diplomatica e antiquaria – intende semplicemente mostrare quanto ricca di fratture, di svolte, di contrasti, di conquiste ma anche di errori sia stata la storia della storia. Per raccontarla in maniera adeguata bisognerebbe riscrivere il grande libro di Auerbach sul realismo nella tradizione occidentale integrandolo con quello che stiamo scoprendo sulle altre tradizioni.
A me pare che negli ultimi anni il dibattito storiografico abbia manifestato due “malattie”: il decostruzionismo di Hayden White che presenta la storia come pratica retorica (a cui dedichi due rapidi cenni); l’idea della storia come scienza previsionale di Peter Turchin (che hai giustamente ignorato, anche perché riguarda solo gli usa). La fortuna culturale di questi due orientamenti ha secondo te contribuito a far pensare alla storia come confronto di opinioni e quindi sostanzialmente a dequalificarla? (il primo per il totale disconoscimento dello statuto scientifico della disciplina, il secondo perché glielo riconosce solo se è ricerca delle regolarità e delle ripetizioni).
Altri ancora se ne potevano aggiungere guardando alle discussioni in atto nel mondo intorno alla pratica e alla teoria dello studio e della scrittura della storia. La questione della sua utilità previsionale è per certi aspetti un’antica nozione dell’historia magistra vitae tradotta in una moderna cultura pragmatica come quella americana, mentre Hayden White ha ripreso spunti dell’idealismo crociano sulla storia posta sotto il concetto dell’arte. Tante altre proposte e orientamenti di metodo o di specializzazioni potevano essere ricordate: pensiamo alla microstoria, per esempio, o alle discussioni e opere nate intorno alla world history. Ma a me importava far presente solo che la storia, il modo di studiarla e di raccontarla ha conosciuto tante fasi e tanti aspetti quante le religioni e le culture del mondo, quante le diverse stagioni del passato. è l’unico modo per rompere l’involucro liscio del programma scolastico e del manuale e sconfiggere l’approccio di una scuola dominata dal pedagogismo di chi crede che non sia importante conoscere la storia per averla studiata ma è importante che l’insegnante abbia imparato come insegnarla.
Ho trovato egregie le ampie parti dedicate nel libro alle differenze fra storia e memoria. Presenti il fortunato sintagma “memoria storica” come una specie di deviante ossimoro, spesso usato per cercare “identità” rispetto alle quali condivido la tua polemica. Puoi approfondire le responsabilità dell’una e dell’altra nella “distruzione del passato”? La storia è selezione: è facile individuare i soggetti delle operazioni selettive del passato e del presente? La memoria ha linee identificabili nel determinare oblio e perpetuazione?
Chi come Francis Fukuyama ha parlato di “fine della storia” era l’interprete della vittoria del neoliberismo come ideologia del finanzcapitalismo, quel capitalismo che Shoshana Zuboff ha definito “della sorveglianza”. In questa cultura gestita e diffusa da aziende private attraverso la rete e assorbita da ciascuno via dispositivi elettronici non c’è posto per la costruzione di una memoria storica attraverso l’impegno nella vita sociale, il mondo del lavoro e della lotta politica. E ancor meno posto c’è per la conoscenza critica della storia in un sistema degli studi finalizzato ad acquisire competenze esecutive e non al formarsi di personalità libere e mature.
Un punto delicato. Oggi c’è il “presentismo” di generazioni che – a differenza dell’Angelus novus di Benjamin – non si rivolgono al passato perché sentono di avere poco futuro. Ma in tutte le fasi del passato campeggia una storia deformata, guidata dall’alto e falsificante. Era positivo che fosse socialmente più recepita rispetto al presente? Non viene una tentazione abolizionista? O è un rammarico che possiamo avere oggi, quando sarebbe positivo che una storia finalmente articolata e ben fatta ottenesse depositi virtuosi nella cultura comune?
Non credo che nel passato la storia sia stata sempre deformata e guidata dall’alto. Nel pur breve spazio del mio libretto ho evocato alcuni dei tanti momenti in cui una nuova concezione della storia ha preso il posto di quella dominante, per ricordare che non per nulla questa forma di sapere ha preso il nome di storia, cioè “ricerca”. E quello che oggi aspettiamo e ci auguriamo è di veder nascere una nuova storia capace di avere presenti e leggere le tante diverse culture e tradizioni di un mondo che per ora è unificato solo sulle tabelle luminose del mercato azionario.
giuseppe.sergi@unito.it
G. Sergi è professore emerito di storia medievale all’Università di Torino