I ragazzi vomitati
di Monica Bardi
Fernand Deligny
I vagabondi efficaci
pp. 255, € 20,
edizioni dell’Asino, Roma 2020
La figura di Deligny, al di là delle dimensioni mitiche che ha assunto in vita e della colpevole rimozione a cui ha riparato, a partire dal 2007, la casa editrice francese L’Arachnéen con la ripubblicazione delle sue opere, è destinata a provocare discussioni. Ne è una riprova l’interessante e acceso dibattito che è seguito in Italia all’uscita dei Vagabondi efficaci, fra realistiche rappresentazioni della presenza a scuola di ragazzi ai margini (Claudio Giunta) e sacrosante istanze di “inclusione” (Christian Raimo). Rimane il nodo (già evidenziato da Luigi Monti nell’Introduzione) di una difficoltà di inquadramento dell’educatore Deligny, anarchico ma sistematico, determinato ma flessibile, coriaceo ma aperto alla sperimentazione. L’accostamento a scuole, psicologi e indirizzi educativi (Françoise Dolto, Anton Makarenko, Célestin Freinet) non dà conto del suo lavoro e anzi l’intervento dei pedagogisti suscita sempre in Deligny una sorta di allergia che viene espressa in modo diretto e aspro: “Quando avrai trascorso trent’anni della tua vita a mettere a punto dei fini metodi psico-pediatrici, medico-pedagogici, medico-pedagogici, psico-pedo-tecnici, alla vigilia della pensione, prenderai una buona carica di dinamite e farai saltare con discrezione qualche isolato in un quartiere di catapecchie. E in un istante avrai fatto più lavoro che in trent’anni” (Seme di canaglia).
La morale che ne trae Deligny è: “Ci sono quelli che sanno parlare a forza di aver ascoltato e altri che sanno a forza di parlare”. Un’idea antipedagogista che attraversa tutto il suo lavoro, dall’insegnamento in una classe differenziale all’osservazione nel manicomio di Armentières (“amavo il manicomio” dichiara in pieno dibattito antipsichiatrico), dall’attività nella comunità di delinquenti a Lille all’esperienza della Grande Cordata (con adolescenti caratteriali e delinquenti), fino all’incontro nel 1967 con un ragazzo encefalopatico grave e il progetto della zattera sui monti delle Cévennes, che porterà avanti fino alla morte. È qui il primo insegnamento che emerge dalle riflessioni di Deligny, particolarmente prezioso in un momento in cui la scuola è davvero una zattera alla deriva su cui disquisiscono i molti che non ne sanno nulla, con una sfilza di microcambiamenti nevrotici.
Deligny ha il coraggio di opporsi ai teorici di chi della scuola non sa nulla e anche di provare continuamente, proprio come il maestro di Un anno a Pietralata (1968), protagonista dello sceneggiato Diario di un maestro di Vittorio De Seta (1973). Chiusa la porta della scuola ai pedagogisti, la si può aprire, per i “bambini vomitati” con cui a che fare Deligny, a operai e artigiani del quartiere. Ogni esperienza è a sé, “individualizzata” si direbbe oggi (ma spesso viatico al conformismo e alla omogeneizzazione) e quindi il modello dei “vagabondi efficaci” si può montare e rimontare all’infinito: “È un mestiere da bambini, è un mestiere d’apostolo, un mestiere da operaio montatore o meglio da stiratrice. E le pieghe sono tenaci nel corpo e nell’anima dei bambini sui quali ha pesato, con tutta la sua massa inerte, una società di adulti completamente indifferenti”. Deligny non è un pedagogo, né un educatore, né un filantropo. Non dichiara, come fanno gli insegnanti sentimentali o distratti, di amare i suoi “ragazzi fuori”, ma di volere che vivano. È una posizione chiarissima, accompagnata dalla consapevolezza di un alto rischio di fallimento (“noi lavoriamo sodo per tornare al porto con minuscole aringhe mentre eravamo partiti per pescare la balena”).
Lo scopo di Deligny non è rendere i disadattati “simili ai normali”, ma di rendere funzionale il loro disadattamento, facendo sempre un passo indietro in un lavoro difficilissimo di sospensione del giudizio (“Prima di indignarti ricordati di cos’eri capace quando avevi la loro età”) e di osservazione. Certo l’osservazione di Deligny si avvale di uno strumento non molto diffuso fra gli insegnanti: uno sguardo da artista, da disegnatore (Deligny lo era davvero), per cui ogni ragazzo è subito al centro di un’immagine efficace che si imprime nella mente e genera un’idea di intervento. Deligny, fu anche autore di film come Ce gamin, là (1975) e nel Diario di un educatore, che chiude questo volume, racconta la scena surreale in cui il reggimento “in uniforme grigio-bianca” dei malati psichiatrici va verso il mare di Dunkerque, nel 1940, davanti all’avanzata tedesca: ne rientrerà in manicomio una minima parte. Un disegno chiarissimo, un acquerello di straordinaria bellezza.