recensione di Adele Tiengo
Gina Berriault
Il figlio
traduzione a cura di Nicola Manuppelli
pp. 140, € 13.20
Mattioli 1885, Fano, 2020
È Andre Dubus a presentare Gina Berriault come una delle scrittrici migliori e più trascurate del Novecento americano. Con questa citazione di copertina l’editore Mattioli 1885 sceglie di proseguire l’importante opera di svelamento dell’autrice, iniziata nel 2018 con la raccolta di racconti Piaceri rubati (2011; Mattioli 1985, 2018), cui fa seguito l’anno successivo Donne nei loro letti (1996; Mattioli 1985, 2019). Con la traduzione di Nicola Manuppelli, la collana Frontiere si arricchisce del romanzo Il figlio, facendo conoscere al pubblico italiano il terzo dei quattro romanzi di Berriault a oltre cinquant’anni dalla sua uscita, nel 1966. Scrittrice dell’ombra e della marginalità (è nata nel 1926 col nome Arline Shandling da genitori ebrei originari dell’Europa Orientale), Berriault dall’ombra e dalla marginalità dei suoi personaggi fa emergere con lucidità e precisione una rappresentazione a tratti struggente della loro umanità. L’autrice ci presenta Vivian come una delle ventitré ragazze che si laureano «tutte con gli stessi abiti di un bianco verginale fluttuanti sotto gli alberi, con in mano i diplomi avvolti con un nastro»: un incipit che termina con la prima stortura rispetto all’immagine che sembra essere stata assegnata alla sua protagonista. Vivian quella notte annuncia infatti il suo intento di sposare il fratello dell’amante del padre, un giovane aspirante attore spiantato, distruggendo in un gesto il proprio ruolo di ragazza di buona famiglia e l’ideale stesso di famiglia. Si stabilisce fin da subito, dunque, il sottile contrasto tra apparenza e sostanza, tra luce e ombra, e pare annunciarsi il destino cui Vivian andrà fatalmente incontro. La vita della donna sembra dirigersi inesorabilmente verso rapporti incompiuti con gli uomini, cui fa unica, drammatica eccezione il legame con il figlio. L’incompiutezza di tali relazioni è determinata dalla pervicacia con cui Vivian e gli uomini della sua vita si dedicano al soddisfacimento di bisogni narcisistici, come mostra la descrizione della storia d’amore con George, alla cui base c’è un «onore opprimente», un’ammirazione tinteggiata dei toni oscuri del possesso in cui Vivian rimane invischiata. Le sfumature cambiano col cambiare degli uomini, ma prende sempre più forma il dubbio che «se la sua vita era stata spesa nel bisogno che lui avesse bisogno di lei» allora l’amore forse non è che il volto con cui la sua disperazione prende forma. Accanto a questa consapevolezza, ecco nascere l’idea che l’unico amore vero possa essere solo quello per suo figlio, il quale prontamente coglie e riflette come uno specchio il bisogno della madre, diventando per lei padre, compagno, il mondo intero. Un bambino, David, che pur rappresentando l’unica costante nella vita di Vivian, cresce nell’impossibilità di sviluppare una vita autonoma. Il figlio, che sembra dominare il romanzo a partire dal suo titolo, non è che un’ombra la cui esistenza appare irrimediabilmente legata a quella di sua madre e per la quale la separazione dalla sua origine equivale alla non esistenza, alla morte.
In un articolo del New York Times, Cynthia Ozick parla di Gina Berriault come di una scrittrice che ha saputo svicolarsi dall’oscurità cui sarebbe stata altrimenti condannata come «a writer’s writer», dove il genitivo sassone indica tanto ammirazione professionale quanto scarso riconoscimento di pubblico. Dovrà attendere gli anni ‘90 per ottenere la fama e tuttavia, come scrive Margherita Ghilardi in occasione della pubblicazione del già citato Piaceri rubati, nell’ombra Berriault si è sentita a proprio agio. Di più, dell’oscurità che troviamo ne Il figlio, l’autrice non ha timore, la fronteggia e la utilizza invece per tratteggiare contorni e profondità della sua narrazione. Apparentemente spietata nell’esporre le vulnerabilità dei suoi personaggi, Berriault svela con esattezza e limpidezza i loro punti d’ombra illuminandoli. Il gioco di chiaroscuro è rivelatore per Vivian, che, in un momento apicale della sua esistenza, spegne la luce di una lampada, e in quel buio ha «l’impressione di non essere mai stata così consapevole. Mai così consapevole del proprio dominio». Un’oscurità rivelatrice, dunque, ma di verità che possono essere inaccettabili e insostenibili. Il figlio le scriverà con una grafia che lei vede «come una barriera fra lui e la madre, un recinto oltre il quale tutte le esperienze del figlio nel corso dell’anno passato erano nascoste». David coltiva un sé nascosto alla madre, e forse in questo c’è il seme della possibilità di una nuova esistenza, interamente sua questa volta. Dal canto suo Vivian, al dominio inarrestabile della propria ombra sceglie come contraltare un rituale di luce che non le appartiene, ma che le permetterà, forse, di distanziarsi dal proprio destino e da se stessa, scoprendo nella distanza e nella separazione l’unica vera possibilità di ritorno e vicinanza.