Il nostro destino non è ancora deciso
di Riccardo Barbero
Le recenti crisi finanziarie, sociali, ambientali e sanitarie del sistema economico e sociale globalizzato, che si è fondato negli ultimi quarant’anni sull’egemonia indiscussa del pensiero ultraliberista, hanno riaperto un ampio dibattito filosofico, politico, economico, accademico e militante sulla necessità di superare il sistema attuale. Naturalmente emergono proposte diverse: qualcuno propone solo delle correzioni al processo di globalizzazione; altri vagheggiano un ritorno alle politiche riformiste dei trenta anni gloriosi. Ma c’è anche chi, sull’onda del movimento sviluppatosi negli Stati Uniti con le posizioni “socialiste” di Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e The Squad, della rivista “Jacobin”, ripropone l’idea del socialismo come società capace di superare le contraddizioni e i limiti dell’attuale sistema capitalistico. Ecco tre esempi di quest’ultimo tipo, pur diversi tra loro. Nancy Fraser è una storica femminista americana che è recentemente intervenuta con un articolo su “The Guardian” per evidenziare il rischio di subalternità del movimento femminista “della seconda fase” agli ideali e alle pratiche individualiste del neoliberismo, trascurando gli obiettivi egualitari e collettivi “della prima fase”. In questo suo ultimo breve libro – che è in realtà il testo della lectio magistralis tenuta a Roma presso l’auditorium del Macro Asilo il primo ottobre 2019 – si propone di iniziare a delineare una visione del socialismo più adeguata ai tempi attuali di quella presente negli scritti della tradizione marxista. Scrive: “Partendo da un concetto più ampio di capitalismo (rispetto a quello di Marx) (…) abbiamo bisogno di una concezione ampliata di socialismo che superi gli stretti economismi propri della sua classica accezione”. E aggiunge: “Il socialismo deve fare di più che trasformare la dimensione della produzione (….) deve anche occuparsi di trasformare la relazione tra la produzione e il suo retroterra (…) cioè la riproduzione sociale, il potere dello stato, la natura non umana”.
Nancy Fraser è consapevole di quanto poco elaborata e rudimentale possa apparire in generale la visione del socialismo che tenta di schematizzare con questo intervento. In questo suo “piccolo inizio” propone un processo di democratizzazione delle istituzioni: il socialismo “deve mettere proprio in primo piano le questioni che il capitalismo relega sullo sfondo misconosciuto”, come il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico. Il principio ordinatore dovrà essere quello della non dominazione. La società socialista deve democratizzare il controllo del plusvalore sociale: deve distribuirlo democraticamente, decidere democraticamente cosa farne, ma anche stabilire quanta deve essere l’eccedenza e se si vuole produrne. In sostanza occorre deistituzionalizzare l’imperativo di crescita connaturato alla società capitalista senza per questo necessariamente istituzionalizzare la decrescita. Per quanto riguarda il ruolo del mercato in una società socialista Fraser propone una “semplice formula” (così la chiama): “Niente mercati in cima, niente mercati alla base, qualche mercato nel mezzo”. Cosa significa questa formula? La cima è la destinazione del plusvalore sociale (se c’è un’eccedenza): a questo livello non deve operare il mercato su una proprietà che occorre intendere come realmente collettiva; i processi decisionali e di pianificazione devono essere collettivi e organizzati democraticamente. La base è costituita dai “bisogni minimi”: casa, vestiario, cibo, educazione, sanità, trasporti, comunicazione, energia e tempo libero che devono essere intesi come beni pubblici e come diritti. A partire da queste considerazioni l’autrice si dice contraria al reddito di base indifferenziato, perché chi sostiene questa proposta considera i bisogni minimi come merci e non come beni pubblici. E per quanto riguarda la parte mediana? Fraser ammette di non averne una visione già elaborata, ma precisa: “immagino questa zona come uno spazio di sperimentazione dove sussistono differenti possibilità, uno spazio dove il ‘socialismo di mercato’ possa trovare un posto, insieme alle cooperative, alle comunità, alle organizzazioni autonome e ai progetti autogestiti”.
Anche se la visione di Fraser, come ammette lei stessa, appare ancora schematica e appena abbozzata, tuttavia il suo punto di vista – quello di una femminista riflessiva con una sua visione critica interna al movimento – è sicuramente interessante. I presupposti dai quali muove sia in termini di analisi del capitalismo, sia, e a maggior ragione, di conoscenza del marxismo e dell’esperienza storica del socialismo reale sembrano, invece, piuttosto fragili.
Molto diverso è l’approccio di Slavoj Žižek nei due testi pubblicati entrambi nel 2020: si tratta in tutti e due i casi di una raccolta di interventi del filosofo e polemista sloveno su riviste e giornali anche italiani. Lo stile anticonformista e provocatorio di Žižek ben si adatta al taglio di un articolo o di una rubrica settimanale; molto meno a quello di un capitolo di un libro. Così nonostante il titolo di uno dei testi – Dal punto di vista comunista – non è facile ricostruire un corpo organico di elaborazioni e proposte. Cos’è il comunismo di cui scrive Žižek? Di fronte alle crisi capitalistiche c’è, scrive, “l’evidente necessità di investire un forte organismo globale del potere di coordinare” le misure necessarie. E aggiunge: “Un organismo del genere non punta forse verso quello che una volta chiamavamo comunismo? (…) C’è bisogno di interventi comunisti perché il nostro destino non è ancora deciso”. E critica la sinistra movimentista degli ultimi decenni che si mantiene a una certa distanza dallo stato e dal potere per salvare l’autentica dimensione politica. Elogia Lenin perché “dopo aver preso il potere, sapeva che i bolscevichi si trovavano in una situazione impossibile per una reale costruzione del socialismo, eppure perseverò, provò a trarre il meglio da un’impasse assoluta”. Cita il testo di Mao del 1937 Sulla contraddizione per attaccare, tra gli altri, la sinistra perbenista: “Il politicamente corretto, con tutto lo pseudo-radicalismo che lo contraddistingue è l’ultimo baluardo della borghesia progressista moderata contro l’idea marxista, nel tentativo di offuscare /dislocare la lotta di classe come ‘contraddizione principale’”. Ma anche se cita Marx, Lenin e Mao, il percorso e il retroterra intellettuale di Žižek sembrano piuttosto influenzati da Hegel, Freud e Lacan.
Anche il secondo testo di Žižek (Virus. Catastrofe e solidarietà) si snoda sullo stesso percorso del precedente focalizzando l’attenzione sulle conseguenze politiche della pandemia: “Non è una visione comunista utopica, è un comunismo imposto dalle esigenze della nuda sopravvivenza. Si tratta purtroppo di una variante del comunismo di guerra”. E ancora: “Il mio comunismo che non è un sogno fosco, ma solo il nome di qualcosa che si è già avviato (…) quindi non si tratta di una visione di un futuro luminoso, piuttosto di un comunismo dei disastri, un antidoto al capitalismo dei disastri”. E per avvalorare questa sua tesi cita due esempi paradossali: “Persino Trump pondera l’adozione di una forma di reddito di base universale” e “Boris Johnson il 24 marzo ha annunciato la nazionalizzazione temporanea delle ferrovie”. Ancora diverso è l’approccio di Carlo Formenti che si definisce “marxista eretico” e precisa: “Non sono di sinistra. Sono comunista”. E tuttavia nel suo testo cita positivamente Fraser quasi a conferma che occorra un confronto ampio e non pregiudizievole per rielaborare un’idea efficace di alternativa socialista. Formenti proviene da una militanza operaista ispirata dall’opera di Mario Tronti, ma con questo suo ultimo libro si propone una rielaborazione critica e autocritica. Non mette qui in conto di precisare tutti gli aspetti di questa riformulazione; basti segnalare il ritorno ad alcuni concetti gramsciani, come egemonia e blocco sociale, la riproposizione della necessità dell’analisi di classe, liberandola, però, “dalla ricerca ossessiva del soggetto ontologico della rivoluzione”, la sottolineatura dell’esigenza attuale di ricostruire una “sovranità popolare” al di fuori delle modalità populiste. È proprio sull’idea di socialismo che il libro di Formenti propone delle considerazioni interessanti, ancor più se confrontate con quelle degli altri due autori citati. Nel testo, infatti, dedica un ampio spazio all’analisi del comunismo cinese per rivedere autocriticamente alcune sue valutazioni precedenti espresse, ad esempio, in Utopie letali, Capitalismo senza democrazia (Jac Book 2013) nel quale testo si rifaceva anche molto alle tesi di Žižek su Lenin.
Oggi Formenti considera la società cinese come un esempio di “socialismo possibile”. Assumendo il punto di vista dei marxisti cinesi, secondo i quali “la costruzione del socialismo deve essere concepita come un processo secolare caratterizzato da avanzate e ritirate, del quale non è mai garantito il successo definitivo”. Perché oggi, a diversità di quanto sostenuto in precedenza dall’autore, il modello cinese è socialista e non un capitalismo di stato? Perché vi sono molteplici forme di proprietà (statali, cooperative, collettive, di città e di villaggio, private); perché vi sono estesi servizi pubblici non di mercato; perché la terra è per la maggior parte pubblica; perché lo stato cinese, secondo lui, ricerca sistematicamente la pace e rapporti equilibrati con altri popoli; perché all’interno della società esistono diverse forme democratiche sostanziali: i comitati di villaggio eletti in modo diretto, la presenza di rappresentanze delle minoranze e di forze politiche diverse dal partito comunista all’interno del parlamento, perché nella società sono presenti in modo diffuso elementi di democrazia diretta e partecipativa senza che si verifichino intromissioni del partito comunista, perché sono diffuse lotte operaie e popolari vincenti contro la corruzione.
riccardo.barbero@istruzione.it
R. Barbero è stato insegnante e dirigente scolasctico