di Dario Gattiglia
Silvio D’Arzo
Casa d’altri e altri racconti
pp. 350, € 13
Bompiani, Milano 2020 (prima ed. 1953)
Silvio D’Arzo
Contea inglese. Autoritratto dello scrittore da lettore
pp. 214, € 18,50
Corsiero, Reggio Emilia 2017 (prima ed. 1986)
Silvio D’Arzo
Essi pensano ad altro
pp. 224, € 7
Bompiani, Milano 2018 (prima ed. 1976)
Vallecchi, Sansoni, Garzanti, Einaudi, Sellerio, Mondadori, Adelphi, UTET, Bompiani: da decenni Silvio D’Arzo viene stabilmente riscoperto, è uno «scoop replicato ad oltranza», nella bella formula di Eraldo Affinati. Ma se l’autodefinito «piccolo popolo» dei darziani prosegue in accademia i propri spogli, giornali e riviste puntano costanti il riflettore su Casa d’altri, il suo presunto unico libro. Recensioni e articoli su questo piccolo emiliano continuano a seguire traiettorie puntuali, secondo un’apologia abbastanza tipica del (non) vissuto: il padre ignoto e la madre amatissima, i tanti pseudonimi, la morte tragica, il successo postumo. Né tentano altri sentieri i corposi, ma pallidi apparati dei due volumi usciti per Bompiani, dove gli abituali Pirandello, Leopardi e il fanciullino Pascoli vengono estratti dal cilindro; un po’ come «alienazione» era stata, ai tempi, la parola d’ordine da doversi spendere. Per fare più scena – e rendere migliore servizio – perché non affiancargli altri patroni? Un Alfredo Giuliani decano della neoavanguardia, magari in coppia con l’arcinemesi Giorgio Bassani, e altre consonanze insospettabili che solo certi minori possono causare. Anche la quarta di copertina dell’ultimo Casa d’altri esibisce una storica sentenza montaliana, nel tempo fattasi réclame: «racconto perfetto», sicuro, ma di cui sono disponibili più redazioni. La «perfezione» era poi individuata nel genere del racconto lungo, di cui si sottolineavano natura ibrida e poca pratica nel nostro paese. Insomma, il buon contrario di un classico.
Come di rado succede a chi si sente classico, D’Arzo volle infatti sconfiggere la bella pagina dall’interno: la sua risposta, personalissima, fu evadere dalla prosa d’arte opponendo alla crociana poesia la poesia in senso stretto; blocchi di versi canonici sono estraibili a piacere dai suoi testi, con passaggio a misure sempre più cantabili, da libretto, fino all’indimenticabile decasillabo della fase estrema. A fianco di questa strategia musicale sta una produzione a getto continuo di metafore e similitudini tra le più francamente bizzarre del nostro Novecento, leggere per credere. La loro originalità non preservò tuttavia da riprese e rimpasti: ne è derivata un’oscillazione tra mestiere (a capirlo basta una pagina: D’Arzo è un tecnico, un manierista), invenzione e rito pronta ancor oggi a destabilizzare. Forse gli esteti e i maudit, se ancora se ne danno, potrebbero rivendicare a D’Arzo un posto fra un tipo tutto particolare di classico: gli autori di capolavori incompiuti. Dai materiali riproposti, il lettore vedrà come Nostro Lunedì stesse tentando l’impossibile, il Grande Romanzo Italiano, se non «l’Eneide del XX secolo»; l’autore sognava, a quanto sappiamo, di farvi confluire Casa d’altri: così il progetto vinceva sulla perfezione. Scelta eccentrica, il ripescaggio di Essi pensano ad altro: l’«incoercibile stranezza» del romanzino accennata in introduzione è un onesto eufemismo, il minimo che si possa dire. Claudio Marazzini ha parlato di «automatismo» della scrittura, e basterebbe citare il disagio di uno squalo dell’editoria come Aldo Garzanti per capire l’antifona: «allucinazione» e «tormento» attendono «il lettore migliore». Il basso costo della nuova edizione dimostra lungimiranza. Eppure, se lo si è dovuto dire di molti, qui studiosi e storici possono trovare un esempio di afascismo davvero costitutivo, pronto a inviare i personaggi ai confini dell’antiromanzo. Ha poco senso dare lo scheletro di una non-storia: tutti i materiali – dalla scena in una vitalissima città morta al catalogo di musici e saltimbanchi che soffrono l’abitarla – gridano primo Novecento, ma sono le note di una voce assonante solo con se stessa. C’è chi ha fatto il nome di Chagall, pur virato in bianco e nero: offrire paralleli figurativi salva dal cercare possibili modelli per questa prosa senza esterni, dove «il forse prolifera mostruosamente». «Antinaturalista» militante, allora, tipico uomo del secolo affetto da «vocazione crepuscolare aggravata» (sfociata in una morte filologicamente precoce), o «il migliore di tutti gli ermetici»? Per come la vediamo oggi, a quest’altezza D’Arzo sembrava essersi speso tutto nel romanzo radicalmente debole, ma il racconto miracolosamente forte aspettava.
Dalla biblioteca della Contea: il Wakefield di Hawthorne: tradotto proprio da Montale, nell’Americana di Vittorini faceva macchia quest’altra visione di un esilio volontario tutto metropolitano, condotto senza energie.
Nella più completa raccolta darziana di narrativa breve in circolazione, il paradosso si acutizza: sono di nuovo pagine come nessuno ne ha scritte, spesso composte mettendo mano agli stessi materiali. Il lettore non si irriti: oltre al notevole mazzo di racconti né lirici né realisti che avrebbe dovuto sfamare Nostro lunedì, giustificano la spesa almeno la scintillante, sadica fantasia landolfiana di Un ragazzo d’altri tempi e il dittico Una storia così–Fine di Mirco, esercitazione tutta personale nel già allora inflazionato realismo magico (che, buona occasione per scoprirlo, fu italiano prima che ispanico), a riprova di come il giovane autore abbia sentito di dover superare stilemi e mode in cui eccelleva. A differenza di molti colleghi, anche futuri, D’Arzo rinnegò infatti la specializzazione in «fantasmi, bambini e cadaveri»: i personaggi di Casa d’altri saranno, ma non solo, un po’ tutti e tre. Ci fermiamo però alle soglie del capolavoro, come modestamente – ma obiettivamente – è chiamato nell’indice; rendiamo solo noto che la monumentale Storia della letteratura italiana Garzanti lo proclama «il racconto cattolico più bello della sua generazione» e che Giovanni Raboni – di cui sono appena state ristampate le (non poche) stroncature – ancora più semplicemente lo definiva «uno dei libri più belli» del dopoguerra. Se diffidare della bellezza come categoria critica è, di solito, una buona idea, qui si può stare tranquilli.
Dalla biblioteca della Contea: Daisy Miller di Henry James, altra storia di un lungo autunno e del suo approdo naturale: a «partir verso casa» sono stavolta due giovani.
Più lucido di tanti sull’«ideale sedentario» dell’Odissea, nel titolo del volume riproposto da Corsiero D’Arzo voleva ancora cintare uno spazio, prendere casa. Gli autori residenti conoscono grafie oscillanti, come chi si conosce solo per nome: amichevolezza che porterà forse il lettore a ripensare alcune posizioni giovanili (ne abbiamo tutti, e spesso di simili). L’Hemingway «letterato» nell’intimo, il Villon «buon compagno» e il Kipling «senza trombe» sono i frutti di una critica-monologo ottenuta sollecitando gli autori, talvolta letteralmente, fino al dialogo. Non sorprende che i due autori del cuore, James e Stevenson, siano stati in vita confidenti e corrispondenti: pur progettando uno studio di Tre viaggi, «quello di Gordon Pym, quello del capitano Achab, quello dell’Hispaniola», D’Arzo concentrò le proprie energie sull’unico a non avere il naufragio come meta. D’altronde, L’isola del tesoro rimase per lui «il libro di Jimmy»: e qui sveliamo l’ultima sua patria cercata, come scopritore di «orizzonti inaspettati, vastissimi» dietro Perrault e favolista a sua volta. Geniale, in questo senso, la scelta di posporre ai saggi l’incompiuto e indefinibile Una storia così, lasciato sul colloquio tra Davide Copperfield morente e un signor Holmes convinto che «sarà un’altra vita per tutti noi». D’Arzo potrà allora unirsi al valdese Jahier, poeta moralissimo prestatosi a Stevenson, e al barbaro Fenoglio traduttore di The wind in the willows, ma questa degna ciurma avrà da riservargli, come minimo, il posto di coffa.
Dalla biblioteca della Contea: il Manalive di Chesterton, nella traduzione di Emilio Cecchi, se è possibile: quasi esercizio di critica darziana applicata alla fiaba, è il caso di un libro ideale – «cercare l’isola a due passi di casa» è qui, né più né meno, la trama – tradotto dal lettore ideale. Ma nella Contea c’è posto anche per l’emigrante Michele Mari di Otto scrittori, racconto che appare sperato, più che anticipato, da questi saggi.