Joseph E. Stiglitz – Popolo, potere e profitti

La mano invisibile e le sirene del fondamentalismo di mercato

di Francesco Saraceno

Joseph E. Stiglitz
Popolo, potere e profitti
Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento
ed. orig. 2019, trad. dall’inglese di Maria Lorenza Chiesara,
pp. XXX-346, € 20,
Einaudi, Torino 2020

In Popolo, potere e profitti Joseph Stiglitz fornisce un quadro esaustivo di tutti i fallimenti del fondamentalismo di mercato che ha ispirato le politiche pubbliche negli Stati Uniti e altrove a partire dagli anni ottanta, e prova a indicare alcuni possibili correttivi per ritrovare quel “capitalismo progressista” che ha assicurato benessere diffuso e crescita nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale. Si tratta di un volume che viene a raccogliere e a comporre in un quadro coerente gli innumerevoli testi che fin dai primi anni Duemila Stiglitz ha dedicato alle derive del capitalismo senza regole.

Per comprendere la portata dell’analisi di Stiglitz è utile un breve riassunto del suo contributo alla teoria economica. Dopo la crisi della teoria keynesiana negli anni settanta, è emerso un consenso in macroeconomia incentrato sulla capacità dei mercati di raggiungere se non l’equilibrio ottimale, perlomeno quello migliore. Da questo segue che l’intervento pubblico in economia deve essere limitato al far rispettare le regole del gioco (libera concorrenza, diritti di proprietà, etc.) ed eliminare rigidità (come ad esempio salari minimi o ostacoli ai licenziamenti) che rischiano di impedire la convergenza dei mercati verso il migliore dei mondi possibili. Questo consenso si è costruito a partire dalla teoria neoclassica della fine del XIX secolo, ricostruita e consolidata negli anni cinquanta del Novecento. È una teoria in cui il mercato decentralizzato è la sola istituzione necessaria per coordinare i piani di agenti razionali e informati aiutandoli a raggiungere l’equilibrio ottimale. I “fondamentalisti di mercato” hanno ripreso quello schema concettuale per spingere all’adozione di politiche neoliberali e all’espulsione della politica dalla sfera economica in favore di una gestione tecnocratica orientata a imporre “il migliore dei mondi possibili”. Dimenticavano, i fondamentalisti di mercato, che nelle intenzioni dei suoi ideatori, giganti del calibro di Kenneth Arrow, il modello dell’equilibrio generale concorrenziale non costituiva che una rappresentazione fittizia: una sorta di ideale a cui confrontare l’analisi di un mondo reale necessariamente imperfetto e in cui i mercati raramente si coordinano su equilibri che siano anche solo soddisfacenti.

Prima di mettersi al servizio della politica economica (lavorando per l’amministrazione Clinton e per la Banca mondiale, in entrambi i casi con rapporti piuttosto burrascosi proprio perché in disaccordo con le politiche seguite) lo Stiglitz “accademico” ha contribuito a costruire la teoria dei fallimenti di mercato, studiando tutte le ragioni per cui i mercati non riescono ad avvicinarsi all’ideale ottimale: in caso di informazione imperfetta (o asimmetrica), di potere monopolistico, mercati deregolamentati ed eccessivamente flessibili possono portare a equilibri subottimali, in cui ad esempio alcuni agenti hanno una quota sproporzionata del reddito nazionale, o ancora parte dei fattori produttivi (lavoro, capitale), è disoccupata. La ricerca di Stiglitz, insomma, ha contribuito in modo fondamentale a far capire “perché la mano invisibile di Adam Smith non si vede: perché non c’è”. È per questi lavori che l’economista americano ha avuto il premio Nobel nel 2001. È quindi naturale che nella sua partecipazione al dibattito pubblico Stiglitz sia diventato il più autorevole fustigatore dell’approccio neoliberale che, in versioni più o meno estreme, ha caratterizzato la politica economica di tutti i paesi avanzati.

Popolo, potere e profitti riassume la visione di Stiglitz su come il capitalismo abbia perduto se stesso abdicando alle sirene del fondamentalismo di mercato. Se l’analisi è in larga parte incentrata sugli Stati Uniti, i lettori di altri paesi non faticheranno a individuarne la rilevanza più generale. Nella prima parte, suggestivamente chiamata Smarrire il cammino, Stiglitz mostra come a partire dagli anni settanta lo smantellamento dello stato regolatore ispirato a principi keynesiani abbia provocato una generalizzata riduzione del benessere collettivo. L’aumento delle disuguaglianze, il rallentamento della crescita, l’aumento dell’instabilità e il ritorno delle grandi crisi finanziarie che erano a lungo state eliminate, la rottura dell’ascensore sociale e quindi del sogno americano dell’uguaglianza di opportunità, il deterioramento del sistema educativo (sempre più costoso e ormai incapace di favorire la mobilità sociale): sono tutti risultati di un sistema economico che non è più capace, come era stato nel dopoguerra, di innalzare gli standard di vita e il benessere collettivo. Sono molti gli esempi di questo “disallineamento” tra l’economia e il benessere delle popolazioni: un sistema finanziario che ormai è allo stesso tempo ipertrofico e incapace di finanziare appropriatamente l’economia reale (in particolare le piccole e medie imprese). Una politica della concorrenza che ha per anni spinto per deregolamentazione e liberalizzazioni dimenticando (meglio, facendo finta di dimenticare) che in un mondo reale in cui il potere di mercato e le asimmetrie informative sono la norma questo non avrebbe portato a più innovazione e progresso economico e sociale, ma solo, come è puntualmente avvenuto, a rendite e sfruttamento, posizioni dominanti, disuguaglianze crescenti; ancora, il liberoscambismo senza regole che porta all’appropriazione dei frutti della globalizzazione da parte di alcuni paesi e, all’interno di questi, all’impoverimento delle classi medie e inferiori a favore delle élite globali (si veda su questi temi l’eccellente lavoro di Branko Milanović Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, Luiss University Press, 2017). E all’altro estremo la reazione di un protezionismo che invece di lavorare a regole del gioco che distribuiscano equamente i frutti della globalizzazione propugna un impossibile ritorno a un commercio internazionale fatto di rapporti di forza e barriere commerciali nella vana speranza di riuscire a fermare l’emorragia di posti di lavoro. Stiglitz nota che sia i cantori della globalizzazione senza regole che i partigiani della chiusura protezionista hanno lavorato per fare gli interessi di capitale e redditi elevati a discapito di lavoratori e classi medie.

Finanza, concorrenza, commercio internazionale: si tratta di evoluzioni legate tra loro, governate secondo i principi di un fondamentalismo di un mercato che invece di corrispondere all’ideale della teoria è stato piegato agli interessi di un’élite globale al prezzo della stagnazione (quando non l’arretramento) degli standard di vita di larghe parti della popolazione dei paesi avanzati, e della distruzione delle risorse naturali del pianeta. Stiglitz dedica poi un capitolo intero al tema delle nuove tecnologie e a come, anche in questo caso, il potenziale per un progresso tecnico al servizio del benessere collettivo sia stato sprecato in favore di un capitalismo della sorveglianza che ha spremuto i consumatori, danneggiato lavoratori e piccole imprese, danneggiato la qualità della democrazia.

La seconda parte del volume propone alcune linee di intervento per ribilanciare la crescita, garantire la sostenibilità sociale e ambientale, ritrovare un buon equilibrio tra azione individuale e azione collettiva. Stiglitz evoca molti assi di intervento, tra cui alcuni specifici al sistema statunitense. Si va da proposte per ridare all’istruzione il ruolo di motore dell’ascensore sociale alla protezione del lavoro; dalla regolazione dei monopoli al reddito minimo universale; da un sistema di tassazione più progressivo alla protezione dei consumatori e degli utenti dei giganti del web, al ritorno a un sistema di gestione dell’economia mondiale basato sul multilateralismo. Alcune di queste proposte sono condivisibili da chiunque sia critico del sistema attuale, altre sono molto più controverse anche tra i fautori del capitalismo progressista di cui Stiglitz auspica il ritorno. Per tutte, è necessario che siano messe sul tavolo e discusse. In conclusione, Stiglitz ci consegna un volume in cui la critica al fondamentalismo di mercato si salda con l’auspicio di un ritorno al primato della politica. La teoria economica fornisce da più di mezzo secolo gli strumenti analitici per giustificare l’intervento pubblico nell’economia ogni volta che i rendimenti sociali non sono allineati con quelli privati; più importante, ci fornisce gli strumenti per riallinearli, dalla regolazione macroeconomica alla redistribuzione delle risorse e alla regolamentazione dei mercati. In Popolo, potere e profitti, Stiglitz ci racconta di un sistema di potere che è riuscito per quasi cinquant’anni a convincere i policy makers del fatto che l’interesse di pochi fosse allineato con quello di tutti; che la marea sollevasse tutte le barche. Se la politica riuscirà a rompere quest’impostura e a rimettersi al servizio dell’interesse collettivo, avrà solo l’imbarazzo della scelta quanto agli strumenti per arrivarci. È questa battaglia politica che occorre vincere. Non è un caso che il primo capitolo della seconda parte, quella propositiva, sia intitolato Risanare la democrazia.

francesco.saraceno@sciencespo.fr

F. Saraceno insegna macroeconomia europea a Sciences Po Parigi e alla Luiss