Richard Powers – Canone del desiderio

Quanti modi ci sono di essere vivi?

di Cristina Iuli

Richard Powers
Canone del desiderio
ed. orig 1991, trad. dall’inglese di Licia Vighi,
pp. 796, € 25,
La nave di Teseo, Milano 2020

La giuria del Nobel ha assegnato quest’anno il premio per la chimica a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna per aver scoperto le “forbici molecolari”, una tecnologia genetica che consente di intervenire sul dna di animali, piante e microrganismi con altissima precisione, con una procedura paragonata al “copia e incolla” dei programmi di editing. È una gioia particolare, quindi, leggere un romanzo che ripercorre gli esordi (così maschili) della grande avventura genetica dinamizzando le tracce sotterranee delle passioni investite nella scoperta e rivelando le somiglianze segrete che potrebbero aver ispirato i ricercatori a ipotizzare quelle analogie tra il codice del dna e il codice della lingua, tra la composizione dei viventi e la composizione letteraria perfettamente sintetizzate nella metafora del genoma umano come “poema della vita”. Uscito nel 1991 e finalmente pubblicato in Italia grazie al coraggio editoriale di La nave di Teseo, il terzo romanzo di Richard Powers Canone del desiderio (trad. dall’inglese di Licia Vighi), è un tomo di 796 pagine descritto variamente come narrazione sistemica, racconto ecologico anti-enciclopedico, romanzo a tema ambientale. Indubbia prova del talento affabulatorio e delle vaste conoscenze scientifiche di Powers, questo romanzo esibisce il virtuosismo narrativo del suo autore, che riesce con notevole eleganza compositiva a proporre temi di ardua complessità scientifica e tecnica nella forma seducente di un’opera maggiore. Possiamo definire Canone di Powers un esempio ben riuscito di contaminazione tra letteratura e scienza e un appassionante romanzo sulla storia della scienza e del concetto di evoluzione da un paradigma scientifico a un altro, da Darwin alla genomica attraverso la cibernetica. Soprattutto, è uno straordinario esempio di ecologia poetica, se con questa espressione intendiamo la capacità del racconto di aprire relazioni, possibilità connettive tra distinti campi del sapere e codici specialistici a partire da un sistema narrativo proprio, a partire, cioè, dalle proprie microstrutture morfosintattiche, che generano reti semantiche e si automodellano in architetture retoriche, in un linguaggio su cui preme la complessità del mondo.

Nelle mani di Powers, in effetti, il linguaggio è sempre già metalinguaggio, e la letteratura è il particolare metalinguaggio che permette di azzardare connessioni vertiginose tra codici altamente formalizzati, come il dna, la notazione musicale, la simbolizzazione binaria esadecimale ascii, la crittografia: nella parola letteraria l’informazione si tramuta in creazione di un mondo immaginario in cui la vita e le sue possibilità indeterminabili, la sua creatività smisurata, vengono indicate, affermate, suggerite, ma mai riduttivamente tradotte in “termini funzionanti, nomi e regole per manipolarli”. E, come ci si può aspettare da un romanzo il cui intreccio prende forma nel contesto della corsa per la decifrazione del codice del dna, l’esplorazione del rapporto tra codice e significato e codice e conoscenza offre l’ordito su cui si annoda la trama narrativa delle passioni (intellettuali e amorose), delle vicende (individuali e collettive), dei tumulti (personali e storici) che collegano i tre personaggi principali nelle loro ricerche esistenziali, nella loro domanda di senso e nelle riflessioni sul nesso che congiunge la vita in generale alle loro singole, particolari, microscopiche esistenze; il codice della vita alla sintassi delle vicissitudini individuali.

Ne nasce un’imponente armatura di analogie e “analogie di analogie” tra informatica, genetica, letteratura e musica, eretta su una struttura tripartita vagamente evocativa della doppia elica del dna, con gli eventi, i fatti e le storie del passato organizzati in scheletro laterale, e la linea narrativa del presente che retrospettivamente, al posto degli accoppiamenti di basi azotate, ricostruisce, riprende e intreccia le linee narrative del passato. Nell’impianto del racconto, le torsioni della doppia elica narrativa seguono la struttra delle Variazioni Goldberg, un canone composto da una melodia che si sovrappone a intervalli regolari per 30 variazioni inaugurate e chiuse da un’aria, come i capitoli del romanzo. La perfezione matematica e la potenza evocativa delle Goldberg – specie nel debutto discografico di Glenn Gould del 1955 – accompagnano l’impresa decrittatoria del giovane biologo, Stuart Ressler, aprendogli lo spazio chiuso e asettico del laboratorio alle risonanze della vita, delle passioni, della possibilità dell’amore, dell’errore come scarto dalla ripetizione, come variazione portatrice di evoluzione. Solo verso la fine del romanzo sarà chiaro – almeno a uno dei personaggi – il significato formale e profondo che le Variazioni hanno per Ressler: “Espandere il modesto germe di quattro note della sequenza delle trentadue note alla scala di invenzione infinita”. Un innesco che non prevede termine o destino: “come specie proliferanti, le variazioni non migliorano né avanzano. (…) Sotto la pressione dell’irrequietezza evolutiva, si limitano a estendersi lungo la mappa dei biomi disponibili, a portare alla luce dell’altro materiale del germe incorporato, a materializzare un’alternativa fino a quel momento irrealizzata – simile a tutte le atre solo diversa – nell’esistenza”.

Le Goldberg non esemplificano solo la logica della variazioneinfinita come dispositivo evoluzionistico che garantisce la riproduzione della vita – uno dei temi del romanzo –, ma costituiscono anche un caso di rientro: della struttura nel tema e del tema nella struttura, e suggeriscono una simmetria tra i diversi codici e le diverse tipologie di composizione esibite dal racconto. La musica è allineata alla genetica, al linguaggio di programmazione e alla crittografia, dominante nella prima parte del romanzo dal messaggio cifrato di Max Delbruck a George Beadle, covincitore del Nobel per la medicina nel 1958, e alle citazioni dal racconto Lo scarabeo d’oro di Edgar Allan Poe, la cui presenza è rimarcata già nel titolo originale del romanzo, The Gold Bug Variations. Il fitto gioco di rimandi, di variazioni, ritorsioni e di traduzioni da un codice all’altro ha come sottotesto l’illusione di traducibilità totale dei fenomeni in informazione digitale adombrato agli albori di quella rivoluzione cibernetica avviata un decennio prima della rivoluzione genetica, che intorno alla nozione di codice avrebbe fatto dell’informazione il punto di mediazione tra la vita stessa, il calcolo e le infrastrutture di comunicazione, integrando genetica e informatica, ciò che il crispr come programma di editing genetico dei Nobel Charpentier e Doudna da cui siamo partiti sintetizza perfettamente.

Che la traducibilità assoluta sia un’illusione è chiaro a Ressler nel momento stesso in cui finalmente vede emergere davanti a sé “tutta l’eredità molecolare in forma schematica”: “la cosa più vicina che avrebbe mai raggiunto è la similitudine, la letteratura in traduzione, la cosa con un altro nome. (…). Nella migliore delle ipotesi, la scienza rimane una meravigliosa miniera, non un rimpiazzo della Torre in frantumi.” Dopotutto, però, l’analogia funziona. Almeno fino a un certo punto. A tanto perviene la ex bibliotecaria O’ Deigh – versione della calcolatrice umana, elaboratrice di dati, sacerdotessa della classificazione e compilatrice di quella paradossale versione del calendario perpetuo chiamata “Accadde Domani” – quando lascia l’impiego di bibliotecaria per dedicarsi allo studio della genetica nel tentativo di tradurre a ritroso il linguaggio del dna e estrarre dal “poema epico” della vita, le metafore, le istruzioni che lo organizzano e la loro funzione in quella sintassi comprensibile solo per comparazione: “Una creatura vivente postula, nel profondo delle sue cellule, in una lingua che è anche quella solo un’ipotesi approssimativa, un’analogia funzionante e rivedibile. Il solo tramite del linguaggio è sufficiente per rendere possibile fare delle prove, caricare esperimenti. (…) La lingua (…) può raggiungere la meta, persino modificarla, grazie alla strana capacità di simulare, di supporre, di dire qualcos’altro rispetto a quello che è”. Ma non si deve confondere la composizione con il programma e il gene con il codice, perché così le corrispondenze svaniscono: “La sequenza AACGCTA, potrebbe dare inizio alla vita come parte del discorso, nome simbolico o verbo imperativo: ‘aggiungi questo, poi un legame, poi un altro’ Per un difetto nel sistema della creazione delle frasi, l’enunciato originale diventa AACGCGTA”: forse una trisomia, forse un cancro, forse una variazione fortunata. Ciò che conta non è il gene in sé, ma come si collega agli altri: ogni cosa è ciò che è solo in relazione a tutto il resto: “L’INTERA SERIE DIPENDE DAL COGLIERE GLI ERRORI”.

Se O’ Deigh comprende che “nessuna parte (di un organismo ndr) racchiude la semantica della vita”, ciò che Ressler, invece, cerca è un “semplice assioma generativo da cui deriva tutto”, cioè un sapere totale, metafisico, che riporta la scienza alla versione aggiornata di una mitologia antica: scoprire “come hanno fatto le creature a ottenere la loro natura. Come le cose animate sono nate da quelle inanimate. Quanto diversi si può diventare”. Ma l’insegnamento della genetica è un altro: “la fattibilità di ogni variazione ereditata – il tema elaborato dalla mutazione – si riproduce finché non c’è più una sola epica, ma quattro milioni di diverse edizioni corredate di annotazioni di vari commentatori.” Ad libitum: quanti modi ci sono di essere vivi?

cristina.iuli@uniupo.it

C. Iuli insegna letteratura nordamericana all’Università del Piemonte Orientale