recensione di Renato Leoni
Vigdis Hjorth
Eredità
trad. it. dal norvegese di Margherita Podestà Heir
pp. 374, € 18.50
Fazi, Roma, 2020
Questa famiglia è composta da sei persone: genitori, figlie e figlio ormai adulti e con relativa prole. Alla morte del padre, come ovvio, si arriva alla divisione dell’agognata eredità, ragione di conflitti insanabili. Uno scenario claustrofobico, minacciato da scheletri nell’armadio e vicendevoli incomprensioni, antipatie, odi e rancori e soprattutto traumi. Voce narrante e visione totale di tutte le cose è Bergljot, quarantenne attiva nella critica teatrale, considerata una egocentrica irriconoscente, che insieme al fratello Bård si scontrerà con madre e sorelle per la contesa della casa al mare, luogo simbolico e scenario di vecchi drammi domestici. Il padre, personaggio autoritario ma insicuro, incostante e possessivo, è accusato di non aver trattato equamente i figli. Di più: è colpevole delle peggiori violenze. Vigdis Hjorth, classe 1959, una trentina di titoli alle spalle in quarant’anni di attività, esordisce con Eredità presso il pubblico italiano. L’opera, successo in Norvegia e all’estero, è però anche al centro di un agguerrito dibattito in patria e all’interno della famiglia Hjorth stessa. Andiamo subito al punto: l’incesto subito dalla protagonista-voce narrante del romanzo si è rovesciato nel mondo reale, è costato all’autrice una denuncia dalla sorella e giocoforza è diventato un inconsapevole, forse, volano pubblicitario. L’accusa mossa a Hjorth è di non aver chiesto alcun consenso per la pubblicazione di una storia così delicata, e di aver messo i parenti alla pubblica gogna: per rimediare e chiarire la sua posizione, la sorella Helga ha pubblicato un contro-libro, ancora inedito in Italia. Il fatto è che l’autrice di Eredità è conosciuta nel contesto nordico della Virkelighetslitteratur (“letteratura della verità”, largamente autobiografica, come quella di Karl Ove Knausgaard) come autrice di autofiction: malgrado abbia usato nomi di fantasia, il pubblico potrebbe aver divorato questa velenosa saga familiare come pura realtà…
La prima cosa che leggiamo di fronte alla traduzione italiana di questo libro è la fascetta pubblicitaria apposta da Fazi, che riprende un commento del «New Yorker»: «la più grande storia letteraria scandinava degli ultimi anni». Posto che ricorrere a un termine vago come “scandinavo” per riferirsi alle letterature di quattro paesi è una soluzione pigra, andiamo all’articolo del «New Yorker», dal numero di ottobre 2019: non si parla di “storia letteraria” ma soltanto di “vicenda”. Insomma, non si tratta del materiale narrativo, ma del piccolo caso mediatico che ne è sorto: la querela della sorella Helga, il fattaccio brutto di avvocati, l’attenzione della stampa. Ben altra cosa rispetto al grande romanzo scandinavo che tutti aspettavamo da vent’anni: qui si scambia il parapiglia tra pollame con le uova. Chi si accostasse al romanzo, già dopo una manciata di pagine si potrebbe sentire come un ignaro malcapitato che viene gettato forzosamente in mezzo a un diverbio tra ignoti congiunti, buttato nel bel mezzo di uno psicodramma parental-sentimentale di lunga data. Certo, si può affermare che l’autrice abbia voluto concentrarsi su un grande tabù che la società si ostina a ignorare, ma è altrettanto vero che, guardando all’insieme della narrazione, non convincono la disposizione calibrata ma furbesca dei coup de théâtre, la psicologia sui generis dei personaggi, la marea di citazioni in cui il libro è annacquato. Il lettore si trova in balia di Bergljot e del materiale galeotto che sviscera ossessivamente (le lettere, le mail tra parenti riutilizzate senza consenso): il risultato è un pantano narrativo dove non ci si schioda dalla pesantezza della prima persona singolare della protagonista, una voce che riduce tutti coloro che la attorniano – parenti, partner, amicizie – a macchiette tragiche. E così può fare il bello e il cattivo tempo, sentenziare, girare a vuoto. Può dire delle sue frequentazioni teatrali che sono «persone psichicamente instabili, alcolizzati, talentuose, povere e malconce, depravate e depresse, insomma degli outsider», può raccontarci il suo lavoro di scavo dentro di sé. Bergljot va dallo psicanalista, ci crede, mette in campo le prove tangibili di una cultura acquisita e alza la posta in gioco con riferimenti alti, al punto da aver quasi trasformato Freud in coprotagonista a forza di citazioni.
Quando Georg Brandes disse che la letteratura avrebbe dovuto dibattere dei problemi sociali era l’inizio del Novecento, e poco dopo in “Scandinavia” fu pubblicato L’età pericolosa di Karin Michaëlis. Il libro era la storia di Elsie Lindtner, insoddisfatta donna della buona borghesia danese separatasi dal marito allo scoccare dei quarant’anni. Michaëlis riusciva a restituire un personaggio, una mentalità, una psicologia, sfidando i canoni della narrativa ottocentesca (un uso sapientissimo degli strumenti quali diari, lettere, riflessioni) e affondava il coltello nella ferita dell’esistenza umana e femminile. Fu un successo in Danimarca come all’estero. Diversamente, una voce come quella modulata da Hjorth per la sua Bergljot spinge il lettore a seguire un contesto via via sempre più claustrofobico, ripetitivo, pesantemente arricchito da citazioni e parafrasi di Freud, Jung, Ibsen, Bedford, Strand, Kierkegård, Vetlesen, Ditlevsen, Vinterberg. Questo tentativo – da esperta di teatro quale è Hjorth – di mettere a confronto i propri personaggi con quelli di Ibsen può senz’altro ricordare una figura importante della letteratura norvegese odierna come Dag Solstad, annoverato dall’autrice tra i propri autori di riferimento con Céline e Brecht. Ma mentre l’autore di Tristezza e dignita è un campione della digressione colta ma mai fine a se stessa, oltre che della costruzione di biografie devastate e prive di senso, Hjorth preferisce martellare il lettore con la continua ripetizione di aspetti già descritti, e sottolineare quanto tutto si ricolleghi con qualcosa di già detto o già scritto da nomi illustri.
Di fronte a un libro poco riuscito come questo, la domanda è: cosa si può criticare quando ci si trova invischiati nella narrazione di una vittima di stupro in famiglia, tacciata di menzogna dai consanguinei, che oltretutto ricollega la propria ferita a drammi storici e globali? Eredità, titolo scarnissimo che sembra riecheggiare autori e libri di un mondo decadente, probabilmente è una scelta editoriale dettata dall’onda del successo in patria e non da un ragionamento intorno alla letteratura di Hjorth, un’autrice che nei decenni passati si è fatta conoscere da pubblico e critica con romanzi, quelli sì, decisamente più interessanti.