recensione di Mauro Maraschi
Brianna Carafa
La vita involontaria
pp. 142, € 16
Cliquot, 2020
Ci sono molti motivi per cui alcuni autori rimangono nella storia della letteratura e altri no, e spesso non c’è una proporzionalità diretta tra le sorti editoriali di un’opera e la profondità del suo radicamento nei canoni critici o nell’immaginario dei lettori. Può capitare che scrittori talentuosi manchino l’opera in grado di consacrarli (anche se a Lowry non è bastato Sotto il vulcano affinché anche il resto della sua produzione venisse ricordato). In altri casi bisogna prendere atto che alcune peculiarità e cifre stilistiche invecchiano peggio di altre (sperimentalismi come lo “sguardo fotografico” del nouveau roman, oppure l’attenzione a scenari sociopolitici troppo specifici); rilevante è il ruolo giocato dalla mitologia che si può creare (o meno) intorno all’autore, alla sua biografia e ad altri dettagli non letterari.
Ma se è sempre capitato che autori significativi sparissero dal mercato editoriale per tempi prolungati, in Italia negli ultimi anni si rileva una nuova tendenza: sempre più spesso editori medi e piccoli si distinguono nell’arte del ripescaggio, ovvero la pratica di riportare in catalogo opere e nomi dimenticati, magari già proposti in passato da un grosso marchio. Gombrowicz, un tempo Feltrinelli, è stato irreperibile per anni prima che Il Saggiatore ne intraprendesse la ripubblicazione; Purdy, coperto da Einaudi tra gli anni Sessanta e Settanta, è tornato all’inizio del Duemila grazie a minimum fax, poi è di nuovo sparito e infine è stato riproposto, a partire dal 2018 e tramite inediti, da Racconti edizioni. E così via, gli esempi sono tanti. Anche per la minore pressione commerciale, i piccoli editori sono capaci di stupire in un modo tutto loro, ed è certo questo il caso di Cliquot, una delle nuove leve specializzate nel recupero di perle abbandonate: dopo l’exploit di Carlo H. De’ Medici, fantomatico autore di Gomòria e I topi del cimitero, il giovane editore romano ha messo a segno un altro colpo eccellente riportando sugli scaffali un’autrice caduta ingiustamente nell’oblio: Brianna Carafa.
Nata a Napoli nel 1924 in una famiglia aristocratica, presto orfana della madre (morta pilotando un aereo sportivo), figlia di un traduttore di Goethe e nipote di una traduttrice di Tolstoj e di una importante suffragista, Carafa cresce in un ambiente colto, mitteleuropeo e popolato da donne emancipate. Studia architettura e psicologia, passa alla psicanalisi e frequenta gli intellettuali che orbitavano intorno alla figura di Angelo Maria Ripellino. Nel 1957 pubblica un volume di poesie con l’editore romano Carucci e soltanto nel 1975 il primo romanzo con Einaudi, La vita involontaria, finalista al Premio Strega e definito da Calvino «un libro di qualità: qualità narrative perché certo succede “qualcosa” e qualità di scrittura, così chiara e ferma». La sua carriera da scrittrice sembrerebbe ben avviata, ma tre anni dopo Carafa muore prematuramente, a pochi mesi dall’uscita del secondo romanzo con Einaudi, Il ponte nel deserto. Leggendo La vita involontaria è facile immaginare che, se avesse avuto modo di portare avanti la propria ricerca letteraria, oggi Carafa sarebbe tutt’altro che sconosciuta.
Opera prima matura (Carafa aveva 51 anni), La vita involontaria concilia una scrittura manierista a un trasporto emotivo che attinge sia dal vissuto dell’autrice sia dalle atmosfere e dalle dinamiche di certi classici germanofoni (Walser, Zweig, Musil e così via). Il romanzo si può considerare un Bildungsroman, anche se si discosta dal genere nella misura in cui più che mostrare in tempo reale l’evoluzione del protagonista, la racconta a posteriori con piglio psicanalitico, dando l’impressione che ogni singolo evento venga riferito soltanto se può comprovare una tesi sviluppata alla fine dei giochi. Per capirci: nel corso del libro, più che cambiare, Paolo impara a comprendere e sfruttare ciò che è stato fin da quando ha memoria, avvalorando quel senso di predestinazione ben riassunto dal titolo. Pensiamo, ad esempio, al modo in cui il riferimento iniziale ai “Tetti Rossi” si giustappone a quello finale: i “Tetti Rossi” sono quelli del manicomio nel quale era stato rinchiuso suo nonno, e Paolo, che da bambino guardava con turpe curiosità quell’edificio, vi fa ritorno molti anni dopo in veste di psichiatra, chiudendo così il cerchio. In quest’ottica diventano secondari gli eventi che separano il giovane e introverso Paolo dal Paolo adulto e sicuro di sé, perché Paolo questi eventi li ha vissuti “involontariamente”, senza mai sentirsi nelle cose: la sua, più che un’esistenza, è stata una lenta, graduale e torpida accettazione di uno scollamento dalla realtà, dal motivo che l’ha spinto ad abbandonare la cittadina natìa per studiare filosofia fino alle prime esperienze sessuali con Wanda e alla ripetuta meccanicità dei gesti (“La sera m’intrattenevo con qualche ragazza e ciò che una volta m’era parso pieno di mistero, le calze arrotolate sulla sedia, la biancheria femminile, la boccetta di profumo, diventò un’abituale congerie di oggetti, forse persino un po’ spregevole nella sua indecente vanità, nella sua prevedibilità, nella sua trascurabile concretezza”).
Nemmeno il suicidio di un conoscente lo scuote più di tanto; tutte le persone stimate finiscono per sembrargli “marionette” e Paolo decide di abbandonare l’università, covando il sogno di diventare scrittore: “Forse, alla fine, avrei scritto un libro, il libro di un vagabondo che ha infranto tutte le leggi, che ha sparato prima di partire, come a dei bersagli da baraccone, all’imponente fila di marionette che si erano frapposte tra lui e l’esistere”. Ispirato da un ex mentore, Paolo decide di iscriversi a psicologia, scelta che si rivela liberatoria: “A poco a poco i miei mali divennero i mali degli altri, la sofferenza si allontanò da me per affacciarsi negli occhi sperduti, folli e visionari dei miei simili ed essere finalmente esaminata con il gusto trionfale della definizione e, perché no? di una implicita condanna”. Paolo eccelle negli studi, ma diventa ancora più abietto, prevaricatore e sadico, soprattutto con l’altro sesso. Finché, sempre “per caso”, non torna nel paesino d’origine e inizia la sua nuova vita da Dottor Pintus.
Va detto che se l’impatto iniziale è sorprendente (anche per via degli abili rimandi interni, come il collegamento tra la storia del padre morto in guerra e la follia del nonno), a un certo punto diventa chiaro che per Paolo Pintus esiste un’unica strada, quella che lo porterà a gestire la propria anaffettività. In questo percorso, Paolo non mette mai in discussione il proprio destino, ma lo subisce senza ribellarsi, senza enfasi, in linea con il rifiuto dell’autrice di dare corpo a qualsiasi conflitto morale ottocentesco. Al netto di questa linearità, che può convincere alcuni più di altri, La vita involontaria è un romanzo che trasuda intelligenza senza farne sfoggio e che mette al centro l’importanza di una trama ben congegnata. Una lettura appassionante, insomma, grazie soprattutto alla prosa certosina e a una struttura ben pianificata.