intervista a Cecilia Giampaoli a cura di Jacopo Turini
A partire dalla recensione ad Azzorre del numero di ottobre, che potete leggere qui, oggi vi proponiamo un approfondimento su temi, progetti e riflessioni che attraversano il libro. Abbiamo intervistato Cecilia Giampaoli, che ci ha raccontato un po’ di cose in più sul suo romanzo e sul suo lavoro di documentazione.
Il suo viaggio a Santa Maria delle Azzorre ha dato vita ad altri progetti paralleli, come This HOME is NOT A Temple / Art from an intimate archive, presentato a Pesaro nel giugno 2019. Si tratta di una sorta di documentario che cerca di ricostruire più a fondo la figura di suo padre “attraverso lo sguardo degli altri”, attingendo a video e foto di famiglia. Nel libro, per quanto si faccia qualche riferimento a questo materiale, l’operazione è differente. Come cambia l’uso di questi elementi dal video alla scrittura? Quanto è indipendente Azzorre (nel suo farsi e nella sua resa finale) da questi altri progetti?
Alle Azzorre ho prodotto una ventina di ore di riprese, volevo registrare quello che accadeva intorno a me. Non mi interessava indagare la questione dell’incidente sotto un profilo giuridico: non cercavo una verità né un colpevole. Volevo piuttosto mettermi di fronte alla mia storia e avere, per la prima volta, il coraggio di guardarla per intero. Tanto il diario quanto le riprese sono il resoconto di questa operazione.
Negli anni che sono seguiti (il viaggio risale al giugno del 2014) ho visionato, acquisito e archiviato materiali di repertorio privato e pubblico: foto e film/video di famiglia, ma anche giornali, telegiornali italiani e stranieri, interviste, nastri audio e video di diversa provenienza, e ho iniziato a stendere un progetto audiovisivo. Il diario fa parte a tutti gli effetti dell’archivio da cui attingo e, come il resto dei materiali, si tiene in equilibrio fra la narrazione del presente e quella della memoria.
Realizzare un documentario a partire da una quantità indefinita di found footage (indefinita perché continuo a trovare materiali) e da immagini girate seguendo una storia in divenire senza una traccia di sceneggiatura preesistente è come mettere insieme un puzzle da migliaia di pezzi senza sapere che immagine si può comporre: richiederà ancora tempo. In This HOME is NOT a Temple ho esposto l’intero l’archivio su cui sto lavorando, compreso il diario (Azzorre) che era fruibile in mostra in forma di manoscritto. Un lavoro in fase di realizzazione è permeabile a critiche e suggerimenti: è fragile e fecondo al contempo. Ma mettere a nudo un progetto del genere e allocarlo nella casa della propria infanzia (il lavoro nasce come site-specific) significa spogliare anche sé stessi, la propria storia e la propria famiglia, lasciarsi investire dalle osservazioni di chi vede l’operazione come un progetto professionale, ma anche dal compatimento di chi la crede un’ossessione derivata dal mancato superamento di un trauma. Il titolo (in inglese perché l’apertura si è svolta in occasione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro) voleva suggerire ai visitatori: questa è un’operazione artistica non la mitizzazione di una persona scomparsa, la casa è aperta – non è un tempio – e, se anche in passato lo fosse stata, oggi è un tempio da profanare.
Sia in This HOME is NOT A Temple che in Azzorre viene più volte ribadito che il disastro non è affatto una vicenda privata: tante altre persone hanno dovuto fare i conti con l’incidente. La riflessione sulla collettività del dolore, come sulla pratica della conservazione dei ricordi, sono centrali. In questo senso, Azzorre è anche la storia di tante condivisioni; il libro è lontano dai percorsi dell’inchiesta letteraria come dall’autofiction. La verità, quindi, più che nell’evento in sé, sta nei suoi effetti sulle persone. È sempre stata questa collettività a interessarla? Pensa che sia un metodo efficace per affrontare o governare il potenziale emotivo di una storia?
Sì, penso di sì. Un disastro aereo ha una portata enorme, centinaia di storie private strette sotto l’ombrello in un unico pianto torrenziale. Tuttavia, questa forma di collettività del dolore non è la sola ad avere un grande potenziale di risonanza, non credo sia necessario raccontare un evento extra-ordinario per rendere “interessante” una storia. Il dolore è un’esperienza collettiva nel senso che lo è l’esperienza stessa della sofferenza. Tutti conosciamo il dolore, la portata oggettiva dell’evento scatenante è irrilevante perché la lettura di un accadimento e i sentimenti che ne conseguono sono fortemente individuali. Possiamo capire gli altri senza bisogno di vivere la loro stessa storia perché acquisiamo naturalmente gli strumenti per farlo vivendo la nostra. Le storie private, quelle piccole, comuni, mi interessano molto da un punto di vista umano e progettuale: mi interessa l’equilibrio instabile in cui ci muoviamo, l’unicità percepita della nostra vita che si scontra contro l’evidenza di un’umanità puntiforme: il senso di una dolce, disperata fragilità. Questo non significa però che ogni vicenda è interessante a prescindere da come viene raccontata. Riprendendo le sue parole, penso che sia necessario “governare il potenziale emotivo di una storia” quando si vuole permettere ad altri di entrarci. Per riuscirci è utile lasciare spazio libero ai sentimenti di chi legge/vede evitando di dare troppe direttrici di senso: mettere ordine, insomma, e non lasciare fuori posto cose troppo personali, un po’ come si fa con una casa quando si aspettano ospiti.
Quello di Azzorre è un viaggio di orientamento, un riconoscimento progressivo dello spazio isolano. Quand’è che però uno spazio diventa un luogo a tutti gli effetti? Secondo alcuni studiosi, piuttosto intuitivamente, si ha inizialmente con un processo di nominazione, che è la prima appropriazione. Per altri, invece, è l’importanza affettiva a delineare un luogo, mentre per altri ancora è la capacità di riconfigurare la propria esperienza su uno spazio fisico. Qual è stato il suo rapporto con l’isola, in questo senso?
Dare un nome alle cose è sicuramente un buon modo per legittimarle. Prima di decidere che sarei partita non sapevo nemmeno come si chiamasse l’isola in cui era morto mio padre. Avevo evitato di affrontare l’argomento e quando ho deciso di farlo mi ci sono immersa del tutto. Un’isola -per riprendere un’idea che compare nel libro- È una porzione di mondo con tutte le sue dinamiche, in cui è facile convincersi che ogni cosa è in relazione con le altre.
Un’isola non è un luogo, è IL luogo, lo scenario di tutto ciò che succede. Te ne rendi conto quando ci arrivi sapendo che dovrai restarci un mese. È strano a dirsi ma mi sento legata a Santa Maria da un sentimento che non è negativo: non lo è mai stato. Ho costruito una relazione con un pezzo di mondo profondamente colpito e cambiato dalla stessa vicenda che ha colpito e cambiato la mia vita: nel punto del bosco in cui è caduto l’aereo, gli alberi non sono più cresciuti.
Nel libro è più di uno sfondo: è un personaggio. L’isola sembrava empatizzare attraverso il clima e gli eventi naturali con quello che succedeva dentro di me. Se seguissimo uno schema proppiano parleremmo di “aiutante” o “donatore”. Il legame è vivo tutt’ora, provo una forte nostalgia per Santa Maria, uno dei miei “personaggi” dice che si tratta di Saudade.
A proposito di nomi, una cosa particolare delle Azzorre è proprio la toponomastica. Se a Vila do Porto non ci sono i nomi delle vie, di isola in isola i nomi delle varie località sembrano ripetersi, in virtù di un certo pragmatismo. Nomi come Vila do Porto per la città e Pico per la montagna (senza dimenticare l’isola di Pico, dove c’è la cima più alta dell’arcipelago) si spiegano da soli. Pur essendo un luogo remoto e, per certi versi, di confine, le Azzorre non sono particolarmente eccentriche o esotiche. Nonostante una natura impressionante e quasi primordiale, rimane un’impressione di familiarità: tutte caratteristiche che, per contrasto, amplificano il senso di spaesamento. Cosa si aspettava di trovare prima della partenza? In che modo tutto questo ha influito sul suo sguardo e sul suo equilibrio?
Non avevo grandi aspettative prima della partenza, se non quelle necessarie a preparare una valigia funzionale. Non sapere troppo dei posti in cui vado mi aiuta a preservare un senso di meraviglia che mi spinge a scrivere. L’isola di Santa Maria è effettivamente una terra inaspettata, molto diversa da ogni immaginario esotico. Ho avuto la sensazione di trovarmi in un luogo nuovo ma familiare, e questo è spiazzante e rassicurante allo stesso tempo. Le isole possiedono un carattere identitario molto netto. Possono far parte dello stesso arcipelago isole molto differenti fra loro. Santa Maria sembra un lembo di Appennino trapiantato in mezzo all’Oceano, la campagna del Centro Italia esposta ai venti e alle bufere: qualcosa di delicato che non ti aspetteresti di trovare lì. Credo sia anche per questo che ho iniziato a specchiarmi nell’isola, a identificarmi con lei: nonostante le persone incontrate e il loro aiuto, durante il viaggio mi sono sentita fragile e sola anch’io.