Squinternati portatori di un destino già scritto
di Ernesto Ferrero
Luigi Malerba
Tutti i racconti
a cura di Gino Ruozzi,
pp. XLVI-689, € 28,
Mondadori, Milano 2020
Il genere racconto, che la leggenda editoriale considera poco vendibile, rappresenta una linea fondativa nella letteratura italiana, poco incline al grande romanzo, Manzoni a parte, e più portata alle forme brevi. Quello che può sorprendere nella strenua fedeltà che Luigi Malerba gli ha dedicato è la durata quarantennale, la più volte dichiarata e anzi rivendicata consapevolezza di praticare un genere tutt’altro che collaterale o secondario, che in lui diventa un carattere identitario, la misura ideale. Sono cinque i volumi pubblicati in vita, grosso modo a cadenza decennale, più un sesto già allestito ma uscito postumo, per un totale di quasi 700 pagine. Un percorso coerente, che adesso diventa perfettamente leggibile grazie alle benemerite fatiche di Gino Ruozzi, che li ha raccolti in un grosso “Baobab” degli “Oscar” Mondadori. Un’introduzione di cinquanta pagine fornisce al lettore ogni possibile informazione biografica e critica, e soprattutto illumina l’opera inserendola nel contesto culturale del suo tempo, dando conto di affinità e opposizioni. Con il “Meridiano” Mondadori di Romanzi e racconti uscito nel 2016 per le cure di Giovanni Ronchini e un saggio introduttivo di Walter Pedullà (cfr. “L’Indice” 2017, n. 5), il lettore ha tutto quel che gli serve per una mappatura esauriente.
Luigi Bonardi da Berceto in Val di Taro (“autocognominatosi” Malerba, così Giampaolo Dossena), nato nel 1927, era sceso a Roma nel 1950, e aveva cominciato a lavorare per il cinema, grazie anche all’amicizia del conterraneo Zavattini, cosceneggiando Il cappotto di Lattuada (1952), e scrivendo racconti per “Cinema Nuovo”. Interrottosi il rapporto, aveva preso a scrivere racconti per giornali (“Il Giornale d’Italia”) e riviste (“Il Verri”, “Nuovi Argomenti”), in genere di una misura standard, quattro o cinque cartelle. È quella che gli ingegnosi bricoleurs dell’Oulipo, Queneau in testa, avrebbero chiamato contrainte, la gabbia che stimola la creatività proprio per la sua ristrettezza, e difatti Malerba vi ha trovato la sua vocazione. I racconti che vanno a comporre il libro d’esordio (La scoperta dell’alfabeto, 1963), che Ennio Flaiano aveva segnalato a Valentino Bompiani, sono storie dell’Appennino parmigiano raccontate con un piglio ruvido e asciutto, tutto cose e fatti, dialoghi scarni, parole come pietre. In filigrana la trama dell’antica sapienza contadina, magari preverbale, fedele alla propria dignità. Malerba le aveva ereditate dalla madre, che pare fosse un’eccellente affabulatrice. Il mondo contadino, ormai al tramonto, di sicuro rimosso o abbandonato a se stesso, vi assume una sua dimensione epica anche nella follia e nelle ossessioni dei suoi personaggi, la cui voce ricorda quella dei “matti padani” di Zavattini, Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, del naïf Pietro Ghizzardi, dello stesso Fellini memorioso. Nessun lirismo, nessuna nostalgia, nessun annuncio di lucciole pasoliniane, come aveva subito notato lo stesso Zavattini, compiacendosene. Ci possiamo trovare il vecchio mezzadro di famiglia, l’Ambanelli, che si fa insegnare a scrivere dal figlio undicenne dei padroni, ma vorrebbe reinventare a suo piacere l’ordine delle lettere dell’alfabeto e magari con esso l’ordine del mondo. C’è il Petronio, alto, secco e cavallino, che per farsi accettare dalla Margherita che lo disdegna prima si taglia un dito, poi dà fuoco al fienile e infine, morta lei, costruisce una ingegnosa ghigliottina portatile che può manovrare da solo. C’è il Govi che, afflitto da nanismo, finisce per scaraventare nel pozzo la moglie che non lo sopporta più. Squinternati portatori di un destino già scritto, assai vicini agli omerici personaggi langaroli che Beppe Fenoglio rievoca negli stessi anni in Un giorno di fuoco e nei “racconti del parentado”.
Di lì in avanti Malerba muove sulla strada dell’apologo, freddo sì ma risentito e urticante, della favola morale rigorosamente priva di notazioni veriste e psicologiche. Abbandonato il mondo contadino, concentra la sua attenzione sul sottobosco delle grandi città, Roma in primis, artigliando le malefatte del potere e di un sistema sostanzialmente mafioso che vive di estese collusioni. “Ogni mio libro nasce dall’indignazione e da un grande disagio”, dirà lui stesso. Non a caso in molte pagine inscena grandiose vendette catartiche, nel segno di una spettacolare giustizia fai-da-te alla Quentin Tarantino.
Sul finire degli anni sessanta, dopo due romanzi, Il serpente e Salto mortale (Bompiani, rispettivamente 1966 e 1968), che dialogano strettamente con il primo libro, Malerba sceglie come set per le sue parabole inquisitorie la Cina di duemila anni fa. Le rose imperiali (Bompiani, 1974, il suo libro più manifestamente “politico”) sono irrorate dal sangue delle vittime del giovane imperatore Che Huang-ti (Qin Shiuangdi, secondo altre traslitterazioni), che abbatte il sistema feudale e crea uno stato fortemente centralizzato, dispotico e sanguinario. Ossessionato dal problema del Tempo e dell’immortalità, è l’uomo che costruisce la Grande muraglia, si circonda di una corte di scienziati (è appassionato di automi), fa distruggere la letteratura anteriore al suo regno e si farà accompagnare dall’aldilà da quella che conosciamo come l’Armata sepolta. Già Borges in Altre inquisizioni si era chiesto quali relazioni potevano correre tra l’erezione della Muraglia e la distruzione della storia. A Malerba interessa come prototipo del Grande fratello, che mira all’annientamento della personalità individuale ed esalta il primato di una Legge astratta e implacabile; ma non risparmia i suoi strali a scienziati sussiegosi e opportunisti, che spacciano un finto sapere.
Con Dopo il pescecane (Bompiani, 1979), Testa d’argento (Mondadori, 1988), Ti saluto filosofia (Mondadori, 2004) e il postumo Sull’orlo del cratere (Mondadori, 2018), Malerba accumula con la pazienza del ragno le tessere impietose del suo mosaico. Nel mirino è l’Italia industriale, politica, televisiva, teatro di mercificazioni, alienazione e sfruttamento. In un clima di falsificazioni generalizzate, vi si aggirano consiglieri delegati, primari ospedalieri, professionisti corrotti, scippatori, gorilla, che per arroganza e avidità finiscono per diventare vittime di se stessi. Ossimori viventi, come sono stati definiti (truffatori onesti, femministi che picchiano la moglie, traditori traditi, ecc.) questi ingannatori seriali amano inventare mondi fittizi da cui non escono più. Anche attraverso un ricco bestiario metaforico, dalle galline ai piranha, alle tigri e agli elefanti (c’è persino l’autobiografia di una sardina), veniamo trascinati in una incessante mise en abîme, in finzioni al quadrato e al cubo, in un gioco di rifrazioni e di specchi, in un labirinto di sogni che sognano se stessi.
Negli ultimi anni Malerba sembra far sua la paradossalità in cui vivono i suoi personaggi. Se la realtà è irreale e il mondo “obliquo sin dalla nascita”, fuori da universi inventati, sigillati nelle loro stesse assurdità, non può esistere niente. Anche un dettato chiaro e trasparente come il suo non è il luogo deputato a trasformare il delirio paranoide in logos, ma un laboratorio dove si prepara l’esplosivo con cui far saltare il sistema logico e concettuale su cui si basano le certezze della società borghese, e la sua stessa impunità. E prima ancora lo spazio letterario convenzionale, l’aborrita narrativa della memoria, il noiosissimo Proust, la “velleitaria” gallina Natalia (Ginzburg), che con i suoi ricordi d’infanzia ha “un gran successo fra le oche”. L’ha detto benissimo Marco Belpoliti sin dal 1992: tutta l’opera di Malerba “è un continuo scarto dalla norma, un inseguimento continuo di quella vera finzione che è l’anima del racconto nell’epoca in cui i racconti sembrerebbero finiti”.
ernestoferrero@tiscali.it
E. Ferrero è scrittore