Massimo Bucciantini – Addio Lugano bella

Banditi senza tregua, andrem di terra in terra a predicar la pace ed a bandir la guerra

di Francesco Cassata

Massimo Bucciantini
Addio Lugano bella
Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani
pp. XVIII-308, € 30,
Einaudi, Torino 2020

Addio Lugano bella andrebbe letto come il terzo atto di un’opera. O come il terzo capitolo di un unico libro, che si aggiunge agli altri due, Campo dei Fiori (2015) e Un Galileo a Milano, (2017) sempre pubblicati da Einaudi. Una trilogia – afferma l’autore, Massimo Bucciantini – “sulla libertà, sulle sue vittorie e sulle sue sconfitte”. Ma anche un frammento di una storia più grande, di “un’Italia laica e civile che rischia di essere dimenticata, tre momenti di riflessione che possono aiutare a comprendere meglio il tempo presente”. Anche tre variazioni sul metodo e sulla categoria di biografia: la biografia di un monumento, la statua a Giordano Bruno eretta nella centralissima piazza di Campo dei Fiori a Roma, dopo un’accesa battaglia culturale e politica durata ben tredici anni, dal 1876 al 1889; la biografia di uno spettacolo teatrale, la Vita di Galileo di Bertolt Brecht, messo in scena per la prima volta in Italia da Giorgio Strehler nell’aprile del 1963, al Piccolo di Milano. E infine la biografia di una celebre canzone popolare, o meglio del suo autore, l’anarchico toscano Pietro GoriIl gioco di rimandi all’interno della trilogia è evidente e in alcuni casi persino esplicito, fattuale. Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno del 1894, l’avvocato Gori difende trentacinque anarchici liguri e piemontesi, tra cui figure di spicco come Luigi Galleani ed Eugenio Pellaco, o come il pittore livornese Plinio Nomellini. Nella sua arringa finale, rivolto alla giuria, Gori intesse una genealogia dell’idea di libertà che muove dal cristianesimo delle origini e giunge all’anarchia, passando per tutte le minoranze rivoluzionarie della politica e della scienza: “E non avete imparato dalla storia, che ogni grande progresso umano è tracciato da un solco sanguinoso, e che nel campo politico come in quello scientifico furono sempre delle minoranze ribelli, che spiegarono la bandiera del vero, e attorno a quella caddero combattendo, o trionfarono trascinando seco le maggioranze inconscie? (…) Non vi ricordate, che i grandi faziosi del Risorgimento italiano sono chiamati oggi precursori, martiri (…) Spartaco, Guglielmo Tell, Danton, Kossuth, Garibaldi: ecco la rivoluzione. Cristo, Confucio, Lutero, Giordano Bruno, Galileo, Darwin: ecco ancora la rivoluzione”. Tre anni dopo, nel giugno 1897, Gori collabora al numero unico “Eppur si muove!” con dei versi dedicati a Galileo dal titolo Il canto delle stelle: il foglio dei socialisti anarchici pisani era stato diffuso in occasione della manifestazione anticlericale organizzata per ricordare il processo e l’abiura del 1633.

E alla fine del 1897, nella stessa Pisa, Gori è ancora in prima fila nella grande manifestazione in onore di Giordano Bruno, conclusasi con l’inaugurazione di una lapide al filosofo nolano. In questi riferimenti – al Gori avvocato, poeta, militante – vi è uno dei nuclei concettuali di Addio Lugano bella: è impossibile capire la genesi di quel canto popolare senza ricostruire la dimensione sentimentale, melodrammatica, carnale, del modo di intendere la politica da parte di Gori. Una politica che disdegna la profondità teorica e l’originalità di analisi per farsi musica, poesia, teatro sociale. Se ne accorgerà Gramsci quando affermerà nei Quaderni: “C’è nel Gori tutto un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestia e di eroismo di cartone. Tuttavia quei modi e quelle forme, lasciate diffondere senza contrasto e senza critica, sono penetrate molto profondamente nel popolo e hanno costituito un gusto (e forse lo costituiscono ancora)”. Un giudizio sferzante ma che coglieva quel misto di cristianesimo solidaristico e di anticlericalismo, di fascino della parola e di utopismo spontaneistico che era riuscito a radicarsi nelle masse popolari, a trasformarsi in “gusto” appunto, con qualche maggior efficacia rispetto alla scienza marxista. “Conquistare la ragione, la mente, non basta – scriveva Gori nel 1896 – se non si conquista anche il sentimento, il cuore”. È attorno a questa visione romantica, da canzone popolare, del cavaliere errante dell’anarchia, dell’apostolo, del poeta gentile, che si costruirà il mito di Gori, emerso – per mano a volte del suo stesso protagonista – negli anni dell’esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti, nel 1895-96, e successivamente, dopo un breve rientro in Italia, in Argentina, dove Gori resterà dal 1898 fino al gennaio del 1902. Il saggio di Bucciantini distingue accuratamente il mito dalla realtà, o meglio li connette e armonizza. L’anima “populista” dell’avvocato toscano non è qualcosa di meramente finto e posticcio ma si configura come “la parte emergente di un lavoro politico e organizzativo più profondo” in cui l’arringa, la musica, lo spettacolo sono indissolubilmente legati all’attività di proselitismo, lungo tutta la biografia di Gori: a Pisa, a Livorno, a Rosignano, a Milano, a Lugano. Certamente, tra i due momenti, tra il mito e la realtà, esiste una frattura, cronologica, esistenziale, politica: la decisione della Confederazione svizzera, nel gennaio 1895, di arrestare ed espellere i rifugiati anarchici italiani, ultimo atto di una campagna di criminalizzazione del movimento che aveva avuto il suo apice alcuni mesi prima in Italia, con l’emanazione delle leggi eccezionali da parte del governo Crispi.

Il ruolo del lombrosismo – in tutte le sue molteplici sfumature – nella costruzione scientifica del nemico politico e nella patologizzazione della violenza politica è il secondo nucleo tematico del saggio di Bucciantini, che vi dedica due capitoli centrali. Nei molti cortocircuiti tra passato e presente volutamente ricercati dall’autore, non può non colpire il fatto che uno dei paragrafi del libro – uscito proprio al termine del lungo lockdown legato al covid-19 – s’intitoli significativamente Epidemia. Una volta spiegato l’anarchismo come espressione di una follia morale di matrice epilettica (ben diversa dall’atavismo), il socialista riformista Cesare Lombroso si scagliava contro il “dittatore” Crispi e la sua politica repressiva: “Il sopprimere una dozzina di anarchici – scriverà nel 1899 – è come uccidere un migliaio di microbi senza disinfettare l’ambiente che ne contenga dei miliardi; è a questo che dobbiamo provvedere se vogliamo star meglio, spezzando il latifondo, migliorando le condizioni generali dell’agricoltore e dell’operaio industriale, e ciò nell’interesse stesso delle classi dirigenti”. E in Gli anarchici – sorta di instant book pubblicato nel 1894 con in copertina il volto candido di Sante Caserio, l’assassino del presidente francese Carnot – gli stessi intenti anticrispini alimentavano l’analogia tra il morbo anarchico e quello del colera che dieci anni prima aveva flagellato Napoli: “Come si vede il colera colpire di preferenza i quartieri più poveri e più sudici della città, e quindi indicarci ove debbansi più portare le nostre cure profilattiche, così l’anarchia infierisce nei paesi meno ben governati, e perciò la sua comparsa potrebbe essere, in mezzo all’apatia delle masse e degli uomini politici, indizio di cattivo governo – e stimolo vivo a migliorarlo”.

I discepoli di Lombroso si mostreranno tuttavia meno critici nei confronti del governo Crispi. Salvatore Ottolenghi, docente di medicina legale all’Università di Siena e futuro direttore della Scuola di polizia scientifica, invocava nel 1897, contro il “morbo anarchico”, l’introduzione di metodi moderni, quali la schedatura antropometrica e descrittiva realizzata in Francia dal criminologo Alphonse Bertillon e divenuta nota in tutta Europa come bertillonage. E mentre Lombroso invocava per la gran maggioranza degli anarchici “il manicomio e non il patibolo e la galera”, il lombrosiano Ettore Sernicoli, ispettore di polizia presso l’ambasciata italiana a Parigi, nei due volumi del suo L’anarchia e gli anarchici, pubblicato da Treves nel 1894, si dichiarava contrario tanto al manicomio quanto al carcere: dal primo si poteva uscire e nel secondo si poteva fare propaganda e proselitismo. Non restavano che due metodi: la deportazione nella Guyana olandese (Suriname) e la censura delle idee che spingevano “a gran passi la società verso il trionfo dell’anarchia”, quelle di Ibsen, di Gogol’, di Tolstoj.

In questo clima repressivo e cospirazionista si sviluppò la campagna mediatica contro Gori, la sua costante sorveglianza da parte della polizia italiana e infine il suo arresto a Lugano nel febbraio 1895. Fino a quella gelida mattina di inverno ticinese – le montagne “bianche di ghiacci” – con cui si apre Il canto degli anarchici espulsi (titolo ufficiale di Addio Lugano bella) con i “cavalieri erranti” trascinati al nord, in treno, verso Strasburgo. Una ballata toscana, sette strofe di quattro versi in rima baciata, con una “bella retorica” – come ha ricordato di recente Francesco Guccini – e con il senso di una fine: in tutta Europa, con la sola eccezione dell’Inghilterra, non vi era più spazio per la diffusione dell’idea socialista anarchica di uguaglianza e libertà.

francesco.cassata@unige.it

F. Cassata insegna storia contemporanea all’Università di Genova