La Giuria decide di assegnare il Premio a Lingua madre della giovane Maddalena Fingerle, un romanzo compatto di grande maturità che riesce nella sfida di tenere insieme leggerezza e profondità, affrontando con piglio holdeniano e stile impeccabile il complesso tema della parola tra pulizia e ipocrisia nel singolare contesto del bilinguismo altoatesino.
Una prima coppia di menzioni speciali della Giuria va a Oceanides di Riccardo Capoferro e a Il valore affettivo di Nicoletta Verna. Oceanides si distingue per la bellezza della lingua e la riuscita fusione di mondi immaginari e mondi conosciuti in un’originale rielaborazione del romanzo marinaresco sette-ottocentesco anglosassone che infrange le barriere fra tradizioni letterarie. Il valore affettivo è una conturbante tragedia moderna presentata sotto forma di romanzo famigliare neoborghese in cui risaltano la coerenza tra forma e contenuto, l’equilibrio della struttura e la sottile definizione di una protagonista prigioniera delle sue ossessioni.
Una seconda coppia di menzioni speciali della Giuria va a Schikaneder e il labirinto di Benedetta Galli e a Vita breve di un domatore di belve di Daniele Santero. Entrambi i romanzi sono sagaci e ironiche ricostruzioni di particolari aure storiche. Con il brillante Schikaneder e il labirinto, dove è notevole la destrezza nel gestire registri ora buffi ora drammatici, ci troviamo nel mondo dell’opera viennese di fine Settecento al crepuscolo dell’illuminismo mozartiano. Con l’estravagante e colto romanzo di Santero passiamo alla fascinazione ottocentesca per l’esotismo del circo e dello zoo, filtrata attraverso la vita di un uomo non illustre, Upilio Faimali da Gropparello.
La Giuria: Omar Di Monopoli, Helena Janeczek, Gino Ruozzi, Flavio Soriga, Nadia Terranova
Il vincitore
Lingua madre
di Maddalena Fingerle
Bilingue come io
La mia scuola delle elementari era nella parte tedesca della città, però era una scuola italiana per italiani. Era un enorme edificio meraviglioso. La scala con la ringhiera e l’eco dei passi erano gli unici motivi per cui valeva la pena andarci. All’inizio era una scuola per tedeschi, poi per italiani e per i tedeschi che non potevano andare nella scuola tedesca perché era proibito e poi per italiani.
La scuola per me però era un vero inferno. Era piena di gente e la gente non faceva altro che sporcarmi le parole, anche se allora lo intuivo solo.
L’unico della classe che sopportavo era Jan Tastein. La prima cosa che mi disse fu: Prescher, lo conosci Marco? E io: no. E lui: è bilingue come io.
Jan mi stava simpatico, anche se mi chiamava per cognome e parlava strano. Suo nonno andava nelle Katakombenschulen e nascondeva i libri tedeschi nel cestino della bici, sotto le patate. Jan era davvero convinto di essere bilingue. E poi Jan non parlava tanto, per fortuna. A scuola gli chiedevano sempre se si sentisse italiano o tedesco e lui diceva che si sentiva sudtirolese, poi ci pensava un po’ e diceva anche: europeo. È strano però, perché ai mondiali Jan tifava per l’Italia. Molti tedeschi qui tifano per l’Italia.
Jan si cagava addosso quasi tutti i giorni e mia madre diceva che era perché i genitori lo obbligavano a fare la scuola italiana e lui era tedesco. I tedeschi possono fare la scuola tedesca, oggi, se vogliono, non c’è più il fascismo, diceva mia madre. A me viene il nervoso perché non è poi così tanto vero che non c’è più il fascismo. Però è vero che i tedeschi possono fare la scuola tedesca, ma possono fare anche la scuola italiana, se vogliono.
Mia madre si corresse subito, scandalizzata: non si dice tedesco, oddio mio, scusa. Si scusava con Jan che però non c’era e non poteva sentirla. Si dice altoatesino di madrelingua tedesca, anzi no: sudtirolese di madrelingua tedesca e si scusava di nuovo, come una cretina. Io dissi tedesco e lo feci apposta e lei si arrabbiò e allora dissi anche negro e lei si arrabbiò ancora di più, io non le spiegai che era un latinismo come cesso, il più bello dei latinismi, perché poi mi avrebbe detto di smetterla di leggere e dopo si sarebbe messa a piangere e io non voglio mai che mia madre pianga perché sennò Luisa si arrabbia e Luisa è cattiva quando è arrabbiata e anche quando non lo è, quindi strinsi i denti mentre mia madre mi tirò un ceffone che mi fece voltare la testa dall’altra parte. La rigirai e pensai: stronza, è un cazzo di latinismo, stronza. Mi veniva da piangere e ripetevo in testa: tedesco negro tedesco negro tedesco negro stronza. Non è vero che le parolacce sono sporche, dipende. Le parole sono tendenzialmente pulite se dicono quello che devono dire senza fare le sceme, come negro e tedesco. Negro e tedesco sono più pulite di persona di colore e sudtirolese di madrelingua tedesca. A Bolzano i tedeschi che parlano dialetto usano le parolacce in italiano, anche le bestemmie. Io chiesi a Jan perché e lui mi disse che in italiano sono più belle, le parolacce.
Menzione
Oceanides
di Riccardo Capoferro
Quando i tacchini erano draghi
A detta di molti, il Nuovo Mondo pullulava di mostri: giganti, ciclopi, bestie dal muso di volpe, le orecchie di gufo e le chiappe di scimmia. Ma io non ne vidi mai. Solo una volta, esplorando la giungla di Darien, vidi un serpente guizzare con grazia sinistra in un intrico di mangrovie, e mi parve di scorgere una testa – una seconda testa – lì dove secondo natura ci sarebbe dovuta essere una coda.
Ma quando mi avvicinai per guardare non c’era più niente, e tutt’intorno si agitava una moltitudine di creature, scolpite dall’ombra e dalla luce. Lascia che le chimere si annidino nei loro anfratti, dissi tra me e me.
C’erano i fenicotteri, simili agli aironi che avevo osservato in Inghilterra, ma più grandi e slanciati, e d’un tenue color vinaccia. Come se non gli importasse di volare, bivaccavano tra gli acquitrini. Si aggiravano col becco chino tra piccoli tumuli di fango, nei quali custodivano la covata. Erano bestie timide, e mi rammarico di essermi nascosto tra le foglie e poi d’aver fatto fuoco, anche se il vederli spiccare il volo con pochi colpi d’ala valeva bene un colpo di moschetto.
E c’erano creature meno gentili: branchi di scimmie dai lunghi arti gibbosi, la coda inquieta, il busto esile e il pelo ispido, che al sentirci vicini si fermarono nel folto, poi, scuotendo i rami, scatenarono una pioggia di foglie e presero a pisciarci sulla testa. Benché più agili e irrequiete di noi, ci assomigliavano; proprio per questo, forse, le fuggivamo, e ridevamo di loro.
E più in basso ancora c’era l’armadillo, dal corpo tozzo e il muso appuntito, che durante il cammino si tendeva a sondare il suolo. Avvertendo la nostra avanzata, si rinserrava nella corazza, flessibile in virtù di una struttura a soffietto. Di lui mi colpì la somiglianza con il ratto. Era un ratto dall’aria marziale, chiuso in un’armatura aguzza che la natura aveva, chissà quando, forgiato per lui.
Di quella e altre bestie bizzarre feci descrizioni e disegni, in un diario che tenevo in una sezione di bambù sigillata con della cera. La giungla e l’oceano non l’avrebbero mangiato: avrebbero, semmai, offerto altre forme da imprimere sulle sue pagine.
Era il gennaio del 1681, e vagavo sulle coste orientali di Darien, alla latitudine di Panama, in cerca di legno rosso da rivendere in Giamaica. Ma il guadagno non mi interessava poi tanto, perché reagivo alle cose che mi circondavano con fremiti sempre più vivi, dei sensi e dell’intelletto. Un frullo d’ali nel cupo del fogliame, l’oscillazione d’un petalo, il fruscio d’una zampa sull’erba mi solleticavano gli occhi, i muscoli e l’immaginazione. E in quell’entusiasmo muto, in quella mia prontezza a scattare con gli occhi e le gambe, ad accogliere nella mente le mille forme del mondo, potei scoprire chi ero.
Avvenne in modo naturale. Guardando l’uccello di quaum che irraggiava i suoi colori tra i rami, indugiai sulla soglia di un mistero…
Fu così, quasi senza avvedermene, che diventai un naturalista…
Mi chiamo Richard Kenton e sono nato nel 1660 a East Coker, nel Somerset.
Menzione
Il valore affettivo
di Nicoletta Verna
Inconscio e marketing
Non sono una persona fantasiosa.
Faccio ogni giorno le stesse cose e faccio ogni notte lo stesso sogno: piove e uccido Stella. Stanotte l’avevo investita con il Ciao bianco sotto il diluvio e andavo a casa dei miei a Grambate per dirglielo, ma c’erano solo i sei televisori di mia madre sintonizzati sui suoi programmi idioti. Poi appariva Carlo e mi indicava un altro televisore in cima alle scale che trasmetteva l’immagine di Stella. Pensavo che fosse arrabbiata con me per averla uccisa, invece aveva la sua solita espressione tranquilla e mi accorgevo che a un tratto era diventata una bambina piccola. Carlo la prendeva in braccio, in quel momento mia madre tornava a casa dalla lavanderia e lui le diceva: «Ecco la tua bambina!». Mia madre la baciava e io mi accorgevo che non pioveva più.
Mi sveglio con un accenno di tachicardia, alzo la luce della lampada finché non tocca la sfumatura in grado di scuotere Carlo dal sonno senza aggredirlo. Come ogni giorno gli porto la colazione a letto, beviamo il caffè sotto le coperte e ci prepariamo per andare la lavoro.
Di lavoro sbobino interviste. Passo sei ore al giorno in una società di ricerche di mercato, un’assurda macchina da soldi senza il cui beneplacito nessuno si sente più di muovere un quattrino. Quando l’azienda della carne in scatola non vende più come dovrebbe si presenta alla mia agenzia …
I Consulenti iniziano a fare domande a queste persone tutte incastonate nelle loro categorie: c’è la madre di famiglia-tipo, la donna in carriera-tipo, il single-tipo eccetera. Le mettono intorno a un tavolo e gli chiedono perché lo spot non li invoglia a comprare quintali e quintali di prodotto. Il fatto che la gente non compri la carne in scatola fondamentalmente perché è una schifezza fatta di carogne putrefatte non viene considerato, e infatti dalla riunione viene fuori che il problema vero è un altro, ossia che il Target non si sente abbastanza euforico quando acquista le scatolette perché ha un retropensiero di senso di colpa nel non avere avuto la decenza di cucinare qualcosa di meglio. I Consulenti ascoltano attentamente e fanno altre domande. Il Target è la Verità e la Salvezza, prima di sparargli in fronte è venerato come un dio. Queste riunioni, che si chiamano focus group, vengono registrate e poi trascritte, così i Consulenti ci studiano e alla fine propongono al Cliente di fare una pubblicità in cui mangiare la carne in scatola tutti insieme è la cosa più moralmente giusta che possa capitare a una famiglia.
Io, per l’appunto, sono quella che trascrive. Carlo dice che sono sprecata in un lavoretto così, ma è uno dei rari casi in cui non riesco a dargli ragione: questo è di gran lunga il meno stupido dei lavori che ho fatto in vita mia. Nel mio precedente lavoro giravo le caselle di un cruciverba gigante con addosso un bikini di lurex mentre adesso vesto Armani e scrivo al computer. Non conosco nessun altro che ha avuto un avanzamento intellettuale come questo.
Menzione
Schikaneder e il labirinto
di Benedetta Galli
Wolfi
Oh beh, signor critico, lo so che dicendo così mi getto tra le vostre fauci. Non vi nascondete dietro la colonna, vi vedo, sapete? E certo, come potevate mancare alla prima? Non vedete l’ora di scrivere che come al solito abbiamo da offrire solo tuoni, fulmini, alberi incendiati, piramidi che si aprono, storie rimasticate e poesia miserabile, per compiacere gli istinti del popolino e infangare l’arte drammatica. Lo so, non la digerite proprio, l’idea che Emanuel Schikaneder si sia conquistato la fama immortale al fianco di Wolfgang Amadeus Mozart! Ecco, lasciatemi dire una cosa: Mozart invece la digeriva benissimo.
Wolfgang Amadeus Mozart… perdio, chi l’avrebbe mai detto! Quel ragazzo irrequieto, sempre in prima fila nel teatro di Salisburgo, che dopo ogni spettacolo veniva a complimentarsi, a criticare, a portarmi i suoi spartiti e a chiedere la mia opinione sul futuro dell’opera tedesca. A me la chiedeva, signor critico! Beh, va detto che a Salisburgo non c’era molta gente con cui parlare di queste cose, e quel poveraccio si annoiava a morte. Era cresciuto girando per l’Europa, esibito nelle corti e vezzeggiato per il suo talento precoce; e ora gli toccava starsene lì dov’era nato, a scrivere musica per l’arcivescovo, giocare a tiro a piattello e subire le angherie di suo padre. Era allegro ma insofferente, scurrile, permaloso; curioso e confusionario nei pensieri, avventato e sfortunato in amore. Camminava col naso per aria, salvandosi per miracolo dagli zoccoli dei cavalli. In quell’anno interminabile, la mia compagnia dovette sembrargli il mondo. Chissà, magari sotto sotto aveva meditato di partire con noi. Invece, quando finì il mio periodo di concessione del teatro, ci stringemmo la mano e ci augurammo buona fortuna.
Lo ritrovai a Vienna, anni dopo. Aveva sposato una ragazza dolce e innocua, aveva un bambino, era diventato massone e scriveva opere alla moda con Lorenzo da Ponte; però ancora non aveva imparato ad attraversare la strada senza rischiare la vita, e inoltre gli toccava sbracciarsi per farsi prendere sul serio dagli alti papaveri. Qui al Freihaus, invece, non doveva dimostrare niente. Era libero di innamorarsi del mio libretto rattoppato, di mettere in musica mugolii e balbettii, senza sentirsi dire che c’erano troppe note nell’opera, senza che ogni aria composta passasse tra le mani di mille censori e cerimonieri. In cambio ci raccontò la storia più bella che aveva: la storia di quando devi lasciar andare l’infanzia, con le sue certezze incontestate e i suoi tortuosi legami innati, per cercare nel buio la persona che sarai.
Sì, Wolfi ci voleva bene. Beh, insomma… Josepha forse non gli andava proprio a genio. Ma lei non conta, era sua cognata, sorella di Constanze. (Non quella che aveva amato da ragazzo, un’altra. Stanzi ha un sacco di sorelle.) Comunque sia… almeno qui, tra i serpenti e gli uccellatori, Wolfi non voleva sentirsi ricordare che a casa c’erano conti da pagare e che non era poi quel buon partito che la famiglia Weber aveva sperato.
Menzione
Vita breve di un domatore di belve
di Daniele Santero
Nascita di un uomo non illustre
In verità Upilio venne via leggero leggero dalle cosce della madre, senza sudate o sforzi apparenti. Sgusciò giù in fretta, unto di umori e fluidi tendenti al rubro, senza richiedere le premure e le attenzioni dei parti più attesi o delicati: non come un delfino di Francia insomma, né come uno dei vitelloni ossuti e spigolosi che poi anche lui vide uscire a stento, una notte, in una stalla appena illuminata, ma se si vuole come una gazzella (Eudorcas thomsonii) in una savana, tra l’erba alta che non conosce il filo della falce.
Nessun camerlengo pensò di turbare in piena notte, con un lucignolo tremulo in mano, il giusto sonno di papa Leone XII, al tempo già abbastanza malandato di salute. Nemmeno un prelato partì in tutta fretta per la verifica di un miracolo, poiché la cosa appariva subito del tutto naturale, fors’anche prevedibile, come nessun miracolo è mai stato. La via della luce era stata infatti aperta e percorsa, prima di allora, da altre otto creature, tra fratelli e sorelle. I fianchi di sua madre Antonia, una contadina mite, appena appena incallita dalle fatiche delle opere e dei giorni, avevano tribolato lievemente ai primi parti; ma al nono avevano retto facilmente lo strappo che coincide con la vita. Così aveva fatto il bambino, che era sano, un maschio: un bene, o meglio un male minore, stando al primo pensiero del padre, Luigi Faimali, che quel giorno approfittò della levataccia per varcare anzitempo la soglia di casa e tornare sui campi.
Proprio la salute sembra essere il motivo dominante dell’infanzia di Upilio, stagione cara ai biografi come un’emicrania, per essere zeppa, in potenza, di segni premonitori, eventi miracolosi, comete vocazionali che appaiono e lasciano strie luminose in cielo. Come se ogni uomo sia stato prima un Ercole in culla, pronto a stritolare formidabili serpenti, o un enfant prodige dello spirito: uno di quelli, per intenderci, che nelle Vite vasariane si rivelano puntuali negli schizzi e nelle figurine fatte per gioco su un ritaglio di carta. É anche vero che la notte d’agosto in cui Upilio venne al mondo il cielo poteva senza dubbio essere rigato dalle scie delle ultime Perseidi. Qualche sparuto serpentello, un innocuo còlubro di Esculapio (Zamenis longissimus), poteva pure aggirarsi da quelle parti: ma a quell’ora se ne stava immobile, acquattato sotto una catasta di legna secca, tra i covoni di grano o i sassi scuri di un muricciolo diroccato.
In ogni caso, quanto al vigore del fanciullo, le fonti offrono qualche conforto. Alla voce «Gropparello» il famoso Vocabolario topografico dei Ducati di Parma Piacenza e Guastalla (1834) di Lorenzo Molossi riferisce di un villaggio di «15 case unite, con 70 abitanti», che salgono a poco più di ottocento includendo i relativi «comunelli» e le parrocchie. Quindi prosegue: «L’aria vi è salubre, gli abitanti sono di forte tempera. Vi predominano venti settentrionali con forte danno dei prodotti del suolo», che sono quelli tipici di una campagna povera, «frumento, biada, castagne e legne», in minore quantità «legumi, granoturco e uva».