Fervore morale ed estasi intellettuale
di Adelino Zanini
Gregory Claeys
Marx e il marxismo
ed. orig. 2018, trad. dall’inglese di Alessandro Manna,
pp. 450, € 33,
Einaudi, Torino 2020
Un titolo è un titolo, per di più se fedelmente tradotto. Ma la congiunzione presente in quello del libro di Gregory Claeys è forse un po’ ingannevole. Meglio sarebbe stato: Marx prima e dopo il marxismo, anche se non sarebbe bastato per sfuggire alla logica, more solito, del “tradimento”. Che non è forse la principale preoccupazione dell’autore del lavoro qui in discussione e che, tuttavia, serpeggia liberamente tra le molte pagine di un’opera che si presenta come una storia del marxismo a partire da Marx, senza però esserlo davvero. A dispetto della mole, molte sono le assenze (questione sempre opinabile), troppe le semplificazioni per uno storico del pensiero politico qual è Gregory Claeys. Il quale, infatti, pur strutturando il proprio testo in due parti distinte, che sembrerebbero giustificare la tradizionale ricostruzione di una dottrina, tra fondazione e interpretazioni, ragiona sul passato guardando in realtà al presente – certo, non all’attualità, che è altra cosa –, al fine di stabilire quanto di Marx sia utile salvarsi. E ciò, nonostante il marxismo, del quale molto poco o nulla andrebbe preservato. Tesi di Claeys è che la fortuna imperitura di Marx sia dipesa dalla sua capacità di sintetizzare le proprie analisi in poche ed efficaci formule facilmente comprensibili dalle masse, entro una visione del mondo che affascina però anche il lettore colto.
“Fervore morale” ed “estasi intellettuale” avrebbero perciò accompagnato il marxismo, salvo poi degenerare con il “modello Lenin” e il bolscevismo. Ciò non toglie che di Marx ve ne sia più d’uno, così come vi sono più marxismi, diversamente efficaci quando si tratti di ragionare su questioni nodali, alle quali lo stesso Marx avrebbe dato risposte differenti, in base anche all’evolversi della realtà storica circostante. Si pensi alla teoria dell’alienazione, al supposto determinismo economico, al ruolo delle classi, al rapporto fra dittatura e democrazia. Il tutto comporta, secondo l’autore, la possibilità di rileggere Marx “attraverso la storia del socialismo”, senza dimenticare che quando egli morì “la maggior parte dei suoi scritti era ancora inedita”. Stabiliti i Marx possibili, il testo considera quindi gli sviluppi dei marxismi, le loro contingenze e degenerazioni, i loro eventuali apporti, al fine di tornare a ciò che di Marx rimane vivo per l’analisi del presente.
Ebbene, nella prima delle due parti di cui il libro si compone, Claeys muove dalla biografia intellettuale di Marx, per poi concentrare l’attenzione su di una prima svolta, quella del 1843-44, inerente alle “modalità di conseguimento dell’emancipazione umana”. In breve, tra la Critica della filosofia del diritto di Hegel e i Manoscritti economico-filosofici entrerebbe in scena “il Marx che tutti conosciamo”, quantunque aperto rimanga il dibattito circa l’interpretazione dell’alienazione e dell’oggettivazione del soggetto inteso come “essere generico”. Si tratterebbe, infatti, di una riflessione “ancora troppo imbevuta di hegelismo”, afferma Claeys, priva degli sbocchi che Marx cercava. I quali si sarebbero delineati di lì a poco, tra l’invocazione della “trasformazione del mondo” delle Tesi su Feuerbach e il concetto di “sviluppo a tutto tondo” dell’Ideologia tedesca, secondo il quale la ricchezza spirituale dell’individuo sarebbe derivata dalla ricchezza delle sue relazioni reali. Di ciò, il Manifesto del 1848 avrebbe rappresentato la sintesi politica, da Claeys opportunamente problematizzata e interpretata rispetto a temi cruciali quali il partito, la dittatura, la proprietà, la famiglia, la nazione, lo stato.
Il passo successivo è dedicato all’economia politica marxiana, non al suo essere critica, però. Marxologia a parte, la differenza non è di non poco conto, se è vero che sulla critica dell’economia politica si è scritto alquanto, ad esempio, tra anni sessanta e settanta del secolo scorso. E del resto, la storia stessa del concetto di “critica” avrebbe dovuto indurre l’autore a prestarvi l’attenzione dovuta. La critica porta infatti con sé il distinguere, la legittimazione di un punto di vista differente: porta con sé la “differenza” (su cui Marx tanto insiste) che connota la distinzione tra lavoro e forza-lavoro. La teoria del plusvalore, sulla quale Claeys si sofferma opportunamente, senza l’assunzione di questa “differenza” che innerva la critica, diventa semplicemente banale. Non è forse casuale che nella ricerca dei possibili precursori, Claeys richiami lo “scambio ineguale” degli owenisti, al fine di accostarvi l’analisi della giornata lavorativa e la teoria del salario di Marx. Certo, fondamentale era anche per Marx l’inattaccabilità giuridica di un apparente scambio di equivalenti tra eguali, ciò che legittimava contrattualmente il salario. Ma tale parvenza emergeva alla fine del processo di valorizzazione, non all’inizio. Esattamente di questo processo avrebbe voluto dar conto la “critica”, sorretta da una “differenza” specifica.
Claeys ha buone ragioni per chiedersi quale fosse la “scientificità” di tale argomentazione (irrimediabilmente dipendente, in termini analitici, dalla teoria del valore-lavoro e dalla sua messa in questione) e delle prospettive che essa avrebbe dovuto aprire. Nel farlo, egli interroga il Marx maturo, dunque la Critica al programma di Gotha (1875) e poi la famosa lettera di risposta a Vera Zasulič (1881) circa il possibile ruolo della comune contadina russa in una futura società socialista, con tutto quanto ciò comportava in relazione al programma definito nel Manifesto e al paradigma della cosiddetta accumulazione originaria. Da segnalarsi, inoltre, è l’attenzione da Claeys prestata allo svolgersi del tema della cooperazione negli scritti di Marx – “un processo che scaturiva dalla crescente socializzazione della produzione”.
Ora, da questo interrogare, quanto emerge è una serie di intuizioni utopiche, secondo l’autore molto più attuali di quelle scientifiche. Tali intuizioni, se da un lato furono cause scatenanti il “fervore morale” e l’“estasi intellettuale” di cui si è detto in apertura, avrebbero trovato nei marxismi fortune alterne e nel “modello Lenin” la loro tomba. Sul punto, ci sembra di poter dire che l’analisi avanzata da Claeys nella seconda parte del libro si limiti a riproporre un calco interpretativo collaudato e scontato, del quale ciò che appare essere più problematico non è tanto la tesi generale, condivisibile o meno, quanto la “semplicità” con cui la si ripropone. Un intreccio di avvenimenti storici, passaggi dottrinali, tratti caratteriali, conduce da Lenin a Stalin, dalla Nep all’invasione della Cecoslovacchia. Ma lo stesso canone storiografico è impiegato, anche se con maggiore equilibrio, nell’analisi di quelli che Claeys definisce altri marxismi: orientali, sudamericano, africano. Meno problematiche le pagine dedicate ai marxismi occidentali, ove s’incontrano le scuole e gli autori più noti, tra cui Antonio Gramsci. E, tuttavia, anche in questo caso, qual-che dubbio è legittimo: si pensi che l’unico marxista italiano della seconda metà del Novecento a essere considerato è Galvano della Volpe, che muore peraltro nel 1968.
In ogni caso, quello che del marxismo residua è davvero pochissima cosa. Dunque, il rileggere Marx “attraverso la storia del socialismo” si traduce di fatto nel chiedersi cosa resti di Marx nonostante il marxismo e gli aspetti negativi da imputarsi allo stesso Marx. Una vita appagante oltre il lavoro, un reddito universale di base contro lo sfruttamento lavorativo, il tema dell’alienazione in una società tecnofila, la critica dell’ideologia, rimpolpata tramite Gramsci e i francofortesi: questi sarebbero i “possibili punti di un programma di sinistra” per il XXI secolo, desumibili dal Marx utopista. Rispetto a tutto ciò, la storia del marxismo sembrerebbe essere quasi un appiglio o la narrazione di un grande “frainten-(tra)-dimento”.
a.zanini@univpm.it
A. Zanini insegna filosofia politica all’Università politecnica delle Marche