La memoria dei traumi e la storia
di Marcello Flores
Gabriella Gribaudi conduce da molto tempo un’analisi approfondita e innovativa sulle memorie della guerra e dei grandi traumi collettivi. I suoi libri, che si fondano su una ricca documentazione di storia orale spesso condotta direttamente da lei o con qualche gruppo di studenti, hanno favorito una presa di coscienza della “soggettività” come elemento ormai ineliminabile per una narrazione della storia contemporanea, soprattutto nei suoi momenti di emergenza ed eccezionalità. Il suo lavoro, insieme a quello di altri – non moltissimi – studiosi italiani, ha permesso che il racconto e il ruolo della memoria siano diventati un elemento presente nel panorama storiografico, con un forte intreccio con la produzione, ben più ricca, presente soprattutto nel mondo anglosassone e francese.
Il volume da poco uscito per l’editore Viella – La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, pp. 312, € 29, Viella, Roma 2020 – rappresenta in qualche modo una summa, una rivisitazione e un approfondimento degli studi già compiuti, presentandosi con una compattezza e coerenza che permettono una riflessione in qualche modo duplice: da una parte sul tema della memoria e della soggettività, del ruolo che rivestono nella ricostruzione storica soprattutto della guerra e dei traumi collettivi; dall’altra sui caratteri di questa particolare storiografia e sugli interrogativi che essa pone agli altri storici ma dovrebbe porre anche a se stessa. È parecchio tempo, purtroppo, che in Italia soprattutto la discussione metodologica e teorica attorno alla storia trova difficoltà a manifestarsi, anche se si è più volte iniziata senza che riuscisse a raccogliere, tuttavia, un coinvolgimento sufficiente – di qualità e quantità – per tenere il passo con quanto avviene invece in altri paesi. Il libro di Gribaudi si compone di quattro capitoli: il primo sui “percorsi della memoria e dell’oblio”, dove si confronta sui rapporti tra la memoria e la storia orale, i traumi e le testimonianze su essi di cui disponiamo; il secondo sulla memoria della guerra in Europa, ed è non solo il più lungo (tra il doppio e il triplo degli altri) ma quello che fa i conti, di più, con un’ampia produzione internazionale; il terzo sui conflitti e le fratture di memoria in Italia, un tema che ha sempre avuto una forte ricaduta sul terreno della public history e dell’uso pubblico e politico della memoria e della storia; il quarto sulla memoria delle catastrofi naturali, un tema già da lei stessa affrontato ma che trova, qui, un approfondimento significativo che vorrebbe aprire la strada a studi originali e innovativi.
Sul rapporto tra memoria e storia, soprattutto a partire dagli anni novanta del secolo scorso, quando la prima ha preso un forte sopravvento, nell’arena pubblica, rispetto alla seconda, ci sono stati negli ultimi anni diversi e notevoli contributi. Gribaudi s’interroga soprattutto sui motivi dei ritardi, delle omissioni, delle rimozioni che ha conosciuto la memoria, guardando anche, però, ai suoi improvvisi risvegli e soprassalti e cercando di comprenderne i motivi. La storia orale, che della costruzione della memoria pubblica è, in qualche modo, il controcanto storiografico, ha profondamente rinnovato proprio il racconto storico delle guerre e dei traumi, a partire da quello della Shoah che ha costituito il punto di partenza e il paradigma attorno a cui si sono costruite in gran parte le fortune della “memoria”.
La capacità di molte delle testimonianze raccolte – e, ovviamente, il modo in cui vengono presentate, assemblate, spiegate – di “penetrare” l’esperienza della guerra, rappresenta ormai un risultato acquisito molto spesso anche dagli storici “comuni”, come lo è il “groviglio inestricabile” di memorie che attorno al tema degli esodi e dei profughi s’intrecciano nei territori della frontiera orientale con la questione dell’identità, o come la questione delle memorie degli stupri di guerra, un tema più volte affrontato dalla storiografia (ma anche dalla letteratura e dal cinema) che non è riuscito, tuttavia, a entrare stabilmente nella memoria collettiva e nella coscienza storica.
Proprio il carattere di questo volume, al tempo stesso di sintesi e di approfondimento, di riproposizione di questioni e interpretazioni già emerse e di novità tematiche su cui un giudizio consolidato è ancora da costruire, mi spinge ad alcune riflessioni e interrogativi – che rivolgo alla stessa autrice – sul rapporto tra la storia fatta da lei (che è riduttivo ridurre alla storia orale o alla storia della memoria) e la storia più tradizionale, quella di noi storici comuni che scegliamo, di volta in volta, di affrontare le vicende politiche o istituzionali, economiche o sociali, culturali o di mentalità, partitamente o tutte insieme: in cui la storia “soggettiva”, la memoria e le testimonianze orali fanno a volte la loro comparsa ma non sono mai, ovviamente, il cuore della narrazione e dell’interpretazione come in questo bel libro di Gribaudi.
La prima domanda, in modo molto chiaro e semplice (spero non semplicistico), è questa: esiste per la storia orale il pericolo – come per la documentazione d’archivio esiste quello della “venerazione delle carte” – di un eccesso di significato attribuito alle testimonianze orali? Cosa spinge il ricercatore a utilizzare le fonti orali già esistenti o a costruirne di nuove, a selezionarne una parte necessariamente minima, a stabilire – sulla base di ipotesi pregresse, di domande storiografiche che stanno a monte – i criteri, i limiti, l’orizzonte di produzione e di utilizzo che se ne può fare? Le memorie e le storie orali raccolte sulla seconda guerra mondiale e sulla Resistenza sono decine di migliaia, mentre ovviamente non sono che poche decine quelle che possono essere usate anche nelle ricerche più articolate. L’arbitrarietà della scelta delle testimonianze – come quella dei documenti da parte dello storico d’archivio – in che rapporto si mette con il ruolo sempre più massiccio della memoria nel riassumere il passato e con la profonda conflittualità che le memorie spesso manifestano?
La seconda è più complessa e riguarda come s’intreccia la storia orale con quella più tradizionale, come la prima può modificare la seconda o come essa costituisca soltanto un di più, un elemento nuovo che toccherà poi ad altri ricondurre nell’ambito dell’interpretazione. Nelle vicende riassunte da Gribaudi sul ruolo della evacuazione forzata dei bambini nella guerra civile greca da parte delle forze comuniste, il racconto in soggettiva dei bambini divenuti grandi sembra scorrere parallelo con quello delle accuse reciproche dei contendenti di allora o delle Nazioni Unite, senza un “incontro” che permetta di suggerire una risposta interpretativa nuova, di dare un giudizio storico che possa tener conto delle due narrazioni diverse. A uno storico come me che si è occupato a lungo, e ancora se ne occupa, della storia del comunismo, colpisce come la storia orale del comunismo non abbia minimamente la forza – quantitativa e qualitativa – di quella che ha affrontato la guerra, la Shoah, i genocidi, anche se non mancano, soprattutto in molti paesi ex comunisti, raccolte poderose di migliaia di testimonianze: il cui uso, tuttavia, è spesso marcatamente di parte, a supporto di interpretazioni ideologiche che non mancano nemmeno, tuttavia, in quelle relative alle guerre e ai traumi collettivi.
Queste e altre domande che la mancanza di spazio m’impedisce di fare si possono riassumere in un interrogativo, che spero non sia personale ma condiviso anche da studiosi che affrontano, come Gribaudi, la storia in modo diverso da quanto faccia io. Dopo tanti anni e brillanti risultati di storia soggettiva, di storia orale e di memoria, è possibile ipotizzare una narrazione sincretica delle vicende del passato che utilizzi le testimonianze soggettive come parte integrante e non separata della storia, in cui elementi soggettivi e oggettivi, memorie e fatti, strutture ed eventi riescano a trovare una sintesi, anche se provvisoria? È vero, la storiografia va avanti da anni per crescenti specializzazioni (Memory Studies, Genocide Studies, Holocaust Studies, ecc) ma noi oggi ci troviamo di fronte a un’esigenza – che è non solo scientifica ma anche culturale, didattica e politica – di fornire una narrazione del passato che sappia raggiungere un mondo, specie giovanile, che sempre più lo appiattisce sul presente perdendo la complessità non solo del contesto ma dei tanti attori presenti nella storia.
floresmarcello@gmail.com
M. Flores ha insegnato storia comparata e storia dei diritti umani all’Università di Siena