di Mauro Maraschi
Macedonio Fernández
MUSEO DEL ROMANZO DELLA ETERNA
pp. 297, € 22
Castelvecchi, 2020
Macedonio Fernández (1874-1952) è una figura fondamentale per la letteratura argentina e sudamericana, ma è anche uno di quegli autori il cui mito è più noto dell’opera. Il ritratto più famoso ce l’ha lasciato Borges, ed è quello di un individuo colto ma umile, carismatico, eccentrico e cervellotico, artista ambizioso e incorruttibile. Nato a Buenos Aires, da dove non si spostò mai, Fernández «visse dedito ai puri piaceri del pensiero»: amava Schopenhauer, Cervantes ed Edgar Allan Poe, Omero, Dante e Kafka, ma per quanto scrivesse con costanza e dedizionepubblicare gli importava poco o nulla. È vero che fu protagonista del movimento letterario dell’ultraísmo, amico dei migliori autori argentini e collaboratore di riviste importanti, eppure in vita pubblicò soltanto tre opere – No toda es vigilia la de los ojos abiertos (1928), Papeles de Recienvenido (1929) e Una novela que comienza (1941, versione embrionale di Museo) –, anche perché scriveva su fogli sparsi e non si curava di conservarli («È tutto dentro di me, tutto è pensato, scriverlo non ha importanza»). Borges, che aveva imparato ad ammirarlo fin da giovanissimo, si avvicinò a lui nel 1921, appena ventenne, e finì presto per considerarlo un maestro: «In quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio». In seguito, non avrebbe perso occasione di sottolineare l’eccentricità del suo mentore, quasi fosse legata al suo valore intellettuale.
In realtà, fin dall’inizio, Borges aveva cominciato a ricamare sulla figura di Fernández, in linea con ciò che avrebbe poi affermato in Kafka e i suoi precursori (1951): «Ogni grande scrittore crea i suoi precursori». Persino Fernández aveva percepito gli eccessi di quell’operazione: «Cominciai a essere citato da Jorge Luis Borges con così poca riservatezza di encomi che, per il tremendo rischio a cui si espose con questa veemenza, cominciai a essere io l’autore del meglio che lui aveva prodotto». È difficile stabilire se far leva sulla sua eccentricità abbia giovato alla fama di questo specifico precursore, ma è un dato di fatto che, negli anni, Fernández sia diventato un’icona per molti scrittori sudamericani: Roberto Arlt lo cita in una delle Acqueforti di Buenos Aires, Cortázar fu ispirato dal suo umorismo, Bolaño lo considerava «un Valéry porteño» (anche se Fernandez disprezzava Valéry) e Ricardo Piglia gli ha persino dedicato un romanzo, La città assente. Tutt’oggi è raro che si parli di Fernández senza nominare Borges e ricordare la sua notissima sentenza: «Macedonio è la metafisica, è la letteratura».
Nel 1920, un anno prima di avvicinarsi a Borges, il quarantaseienne Fernández aveva perso l’amata moglie Elena de Obieta, con la quale aveva avuto quattro figli, ed era stato segnato dal lutto a tal punto da abbandonare la professione di avvocato. Senza scivolare nel biografismo, non si può ignorare quest’elemento nell’approcciarsi a un’opera come Museo del Romanzo della Eterna, nata proprio per rendere alla moglie un omaggio imperituro. E per farlo, secondo la sua idea di letteratura, era necessario scrivere il “primo romanzo bello” della storia: «Non credo molto che la letteratura del passato sia bell’arte; opere di prosa artistica, di genere serio, non abbondano. […] affinché appaia il primo romanzo bello è necessario che si scriva l’ultimo brutto»; ecco perché, parallelamente a Museo, Fernández componeva Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto), che al contrario rispettava quelle regole. I due desideri, quello di rendere immortale Elena attraverso un romanzo perfetto e quello di scrivere il romanzo perfetto che l’avrebbe resa immortale, furono almeno inizialmente complementari, e si inseguirono lungo gli interminabili cinquant’anni di stesura e riscrittura dell’opera. Questo duplice obiettivo fu però conseguito soltanto ventitré anni dopo la morte di Macedonio e per mano del figlio Adolfo de Obieta, che a partire dal 1960 si cimentò nell’impresa di raccogliere, ordinare e diffondere l’opera completa del padre. In patria, Museo apparve soltanto nel 1975; in Italia, invece, è stato pubblicato nel 1992 e viene riproposto oggi da Castelvecchi, Castelvecchi, che ha mantenuto l’impeccabile curatela di Fabio Rodríguez Amaya (co-traduttore insieme a Giovanna Albio, Paola Argento e Martha Canfield).
Siamo nei territori dell’avanguardia e di un proto-postmodernismo. Basti sapere che il romanzo vero e proprio inizia soltanto a metà delle trecento pagine totali, dopo 57 prologhi pensati per prevenire qualsiasi riflessione di lettori e critici, 57 episodi eterogenei densi di teorie sulla forma-romanzo, sulla costruzione dei personaggi, sulla fama e persino sul mercato editoriale, un insieme molteplice supportato da una prosa divertita ed elegante. Ma anche quando il romanzo ha inizio, Fernández fa di tutto per impedire la sospensione dell’incredulità, ricordandoci subito che gli esseri che si muovono tra le sue pagine sono stati «manipolati» e «non hanno vita», e a volte delegando a un personaggio il compito di disfare la narrazione. Non che in Museo manchino eventi, passioni, azioni, dialoghi e colpi di scena, ma di ogni elemento è sempre messa in discussione la veridicità, tanto che il libro a tratti assomiglia al resoconto degli anni trascorsi dall’autore all’interno della sua opera-dimora. A complicare le cose, i personaggi sono per metà ombre di persone reali e per metà proiezioni di due soli archetipi: Fernández è il Presidente, intorno al quale orbita il tutto, ma è anche Dunamor (il vedovo idealista che fa rivivere la sua amata), Forsegenio (l’artista che corteggia Dolce-Persona attraverso «il sistema meno indicato e più noioso: il genere narrativo») e Padre; allo stesso modo Elena origina l’Eterna, Dolce-Persona, Bellamorta e Bellaviva, che sono di fatto la stessa entità osservata da punti di vista e in momenti storici diversi. Come osserva Amaya nella postfazione, «rintracciare un unico filo tra personaggi, autore, lettori, condizioni ed eventi è impossibile. Ma paradossalmente questo caotico universo non è casuale. Con ironia Macedonio lascia che il lettore si perda e si confonda nel suo mondo composto da relazioni e non da un creatore».
Al contempo, Fernández correda la sua creazione di numerosi anticorpi. Nel prologo intitolato Lettera ai critici, ad esempio, chiarisce: «Io non ho trovato una valida espressione della mia teoria artistica. Il mio è un romanzo mancato, però vorrei mi si riconoscesse di essere stato il primo a cercare di utilizzare quel mezzo prodigioso di commozione della coscienza che è il personaggio di un romanzo nella sua reale efficacia e virtù». E in effetti pochi personaggi nella storia della letteratura sono stati più personaggi di quelli di Fernández; come nota Gustavo Micheletti sulla rivista «Dialegesthai»: «i personaggi del Museo sognano soltanto di avere dei corpi: è per questo che possono aderirvi completamente, come invece non può fare chi sia recluso in una veglia dualista o in un romanzo realista». D’altronde per Fernández la dimensione onirica era basilare. Il figlio Adolfo racconta che «quando cadeva nel sonno aveva sempre a portata di mano una matita e un foglio di carta, e per controllare il suo sonno annotava quello che credeva essere l’ultimo minuto della veglia […] Creava sempre in quegli istanti». Convinto che «siamo un sognare senza limiti e solo un sognare» e che quindi «non possiamo avere idea di cosa sia un non-sognare», Fernández scrive «vorrei che questo romanzo avesse qualcosa di un sogno», perché per lui solo il personaggio di un sogno poteva essere davvero genuino. Come osserva Amaya, il confine tra veglia e sonno è «la soglia impercettibile che separa la ragione dalla non-ragione, la realtà dalla finzione, l’essere dal nulla, il personaggio dalla persona». La stessa voce narrante di Museo, dopo aver descritto un momento sereno dei suoi personaggi, aggiunge: «Guardate dunque quest’allegria, quest’innocenza… e pensare che non sentono niente, non hanno vita!». Meno tentano di essere realistici più i personaggi sono veri, nella misura in cui possono esserlo in un’opera di finzione, e da questo punto di vista Museo si rivela inattaccabile quanto opinato dal suo autore-narratore.
Va ribadito che Fernández, oltre che romanziere, fu saggista e teorico: era consapevole della portata del suo progetto, e sapeva che la sua era una delle prime “opere aperte” della storia della letteratura. Non a caso, sempre nella Lettera ai critici, a un certo punto cambia tono e reclama: «Mi si riconosca anche che con questo mezzo, e con altre idee che vengono formulate via via all’interno del libro, rendo più attuabile quella Perfezione in cui sperate e, dandone anche qualche esempio, una dottrina severa dell’arte letteraria. Se sbaglio non sarò né il primo né l’ultimo». Memore che «Persino Cervantes, Dante e Manzoni supplicarono l’indulgenza affinché si considerassero perfette le loro opere», Fernández preferì non concludere la sua opera e porla in una condizione di eterno divenire, affidandone parte del destino «a chi voglia scrivere questo romanzo»: «Lo lascio libro aperto: sarà magari il primo “libro aperto” nella storia letteraria, questo perché l’autore […] autorizza qualunque scrittore futuro […] a correggerlo e pubblicarlo liberamente, menzionando o meno la mia opera e il mio nome. Non sarà un lavoro da poco. Sopprima, corregga, cambi, ma, se è il caso, che qualcosa rimanga». Secondo Amaya, attraverso la «distruzione dei canoni narrativi storici e nel tentativo realizzato di annullare l’autore», Museo definisce «il lettore come individuo autonomo costretto a trasformarsi in coautore dell’opera».
Più che un romanzo, allora, Museo è un generatore di romanzi (come La biblioteca di Babele di Borges o il macchinario di Absalon Amet di Wilcock), un lievito madre impastato per mezzo secolo, un organismo che avrebbe dovuto espandersi all’infinito e che in parte l’ha fatto, se si pensa che, nel romanzo del 1992 La città assente, Riccardo Piglia ha fatto rivivere Fernández in veste di personaggio, immaginando che sia riuscito a eternizzare la sua Elena non attraverso la letteratura, bensì preservandone lo spirito in un misterioso congegno custodito in un museo. Ma per Fernández Museo è stato anche una tela di Penelope, da fare a disfare all’infinito per continuare a frequentare la moglie fino all’ultimo dei suoi giorni, inseguendo quel tipo di immortalità che ritroviamo nell’Invenzione di Morel (1940) di Bioy Casares. In tal senso, Museo del Romanzo della Eterna non è soltanto un capolavoro concettuale, il terreno fertile dove rintracciare alcune delle radici della letteratura sudamericana, un rompicapo e una sfida che qualsiasi buon lettore dovrebbe accettare di perdere, ma anche, in definitiva, uno degli atti d’amore più strazianti mai apparsi nella storia della letteratura.