Raddoppia o lascia? Un impero fondato sull’abitudine
di Damiano Latella
Aldo Grasso
Storia critica della televisione italiana
con la collaborazione di Luca Barra e Cecilia Penati,
pp. 1418, 3 voll., € 55,
il Saggiatore, Milano 2019
Correva l’anno 1992 quando Garzanti pubblicò la prima edizione della Storia della televisione italiana a cura di Aldo Grasso, aprendo la strada a un campo di studi allora quasi inesplorato. Al titolo originario, si aggiunge ora per i tipi del Saggiatore un aggettivo che indica il carattere peculiare dell’opera. Nei tre tomi organizzati in rigoroso ordine cronologico (1954-1979; 1980-1999; 2000-2018), il critico ed editorialista del “Corriere della Sera” si focalizza sull’elemento testuale del medium, vale a dire i programmi, senza trascurare il contesto storico, articolato nelle due sezioni Scenario (in cui il quadro si amplia inevitabilmente in senso socio-politico, con predilezione per i piani alti della Rai) e A video spento (antologia di giudizi d’autore). E si parte addirittura prima del fatidico 3 gennaio 1954, con un’introduzione archeologica che prende avvio dai primi esperimenti condotti a Milano nel 1929. A lungo gli intellettuali italiani non hanno compreso le potenzialità del fenomenale elettrodomestico, tra scetticismo, profezie apocalittiche e qualche previsione troppo ottimista. Certo, non dobbiamo dimenticare che guardiamo a quegli anni con il senno di poi, tuttavia emerge dal florilegio di interventi un clima culturale refrattario ai cambiamenti sociali e condizionato dall’ideologia. Un discorso analogo vale per la politica. Fin dal principio il potere ha messo gli occhi sul nuovo strumento di comunicazione, ed è una morsa tenacissima che non ci abbandona neanche oggi, ma ci si può consolare osservando che, mentre i consiglieri di amministrazione e i legislatori passano, i programmi e ancor più i volti televisivi sono rimasti impressi nella memoria degli spettatori.
Chi sono i protagonisti della tv? È facile pensare ai conduttori, agli attori, alle showgirl, ai grandi ospiti del mondo dello spettacolo. Grasso fa la scelta opposta in modo dichiarato: anno per anno, in base alla data della prima messa in onda, si elencano i programmi ritenuti più rappresentativi dei generi e delle tendenze del piccolo schermo. Purtroppo l’indice analitico consente di ritrovare solo le trasmissioni e non i personaggi notevoli, per cui, anche a causa dei troppi refusi, risulta impossibile seguire le carriere individuali indagando in direzione trasversale. Si succedono, quindi, sceneggiati (poi tramutatisi in fiction), varietà, sport, giochi e quiz, informazione giornalistica e talk show più o meno educati, reality e talent, in una carrellata di facile consultazione e di gradevole lettura. Non si tratta di un’enciclopedia in senso stretto per il taglio interpretativo personale di ciascuna voce. In poche righe, i giudizi talvolta lapidari ma sempre centrati dell’autore colgono i tratti salienti, dal temperamento dei conduttori alla struttura dei programmi. Quando lo consente l’occasione, si aggiungono gustosi cenni aneddotici. Per citare due esempi, ad Arrivi e partenze, per la regia di Antonello Falqui, l’esordiente Mike Bongiorno intervistava celebrità che, da “straniero”, non gli erano tutte così familiari, come Giuseppe Ungaretti (un vero paradosso, uno statunitense che inaugura la tv italiana); tra le riprese in esterni di La freccia nera, lo sceneggiato diretto da Anton Giulio Majano che lanciò Loretta Goggi, si girò una battaglia con soli dodici cavalli.
Alcuni eventi trascendono la classificazione in programmi, e fa una certa impressione ritrovare le pagine della cronaca, poi consegnate alla storia, trattate in un unico discorso a reti unificate, dalle nozze di Ranieri di Monaco e Grace Kelly a Italia-Germania 4-3 e alla stretta di mano tra Peres e Arafat. Il potere della televisione, infatti, è quello di essere un mezzo di comunicazione onnivoro, che fagocita ciò che la circonda assimilandolo, omologandolo, specie se l’omologazione consente di riempire svariate ore di palinsesto quotidiano a basso costo. È sorprendente constatare come un secondo tratto fondamentale, l’autoreferenzialità, che a volte sfocia nell’autocelebrazione, fosse già presente in piccole dosi fin dai primi anni, quando di certo non si poteva parlare di effetto nostalgia. All’epoca si cercava la legittimazione culturale, il riconoscimento di un posto di rilievo nella società. Poi hanno preso il sopravvento l’aura mitica del bianco e nero che avvolge i pionieri del mezzo, valga per tutti l’ineguagliabile foto di scena di Sabato sera con Baudo, Bongiorno, Corrado e Tortora in smoking, e la strabordante ricchezza degli anni ottanta, età dell’oro dell’Auditel, fino all’attuale uso e abuso del repertorio delle Teche Rai.
L’altro meccanismo di base del medium consiste nell’iterazione. Come ricorda Grasso nelle pagine introduttive, la televisione “sull’abitudine ha fondato il suo impero”, sfruttando un bisogno psicologico e, aggiungiamo noi, allo stesso tempo inducendolo. Oggi l’azione si muove su due fronti. Da una parte, la serializzazione di tutti i programmi che funzionano, con pochi titoli spremuti fino all’ultima goccia; dall’altra, l’estensione delle repliche ben oltre il periodo estivo. Gli utenti che pagano il canone Rai per dodici mesi si lamentano a buon diritto. Peccato che poi tanti di loro corrano a rivedere il commissario Montalbano invece delle prime visioni…
L’iterazione vale a maggior ragione per i conduttori, che divengono familiari stagione dopo stagione. Quando i dirigenti lungimiranti scommettono su un nuovo volto e insistono senza imporlo con la forza, si ottengono i risultati migliori, e si perdona volentieri qualche insuccesso. Dopo vent’anni di reality show, l’illusione di una tv affidata alla falsa ingenuità della gente comune ripresa per settimane, invece che ai professionisti, non ha dato frutto. Eppure il genere che ha creato un’enorme quantità di personaggi usa e getta gode ancora di una discreta salute, sufficiente per riproporlo. Nemmeno gli scandali degli ultimi anni, non solo in Italia, sono riusciti a scalfire un prodotto economicamente molto conveniente, perché tracima senza sforzo nelle riviste e in altri programmi satellite che beneficiano del chiacchiericcio, talvolta più moralista di quanto ci si aspetterebbe.
A lettura conclusa, è inevitabile pensare al possibile contenuto di un ipotetico quarto volume. L’evento mediatico del 2018 che chiude l’opera acquista un forte valore simbolico, sebbene appartenga alla cronaca rosa. Per il loro matrimonio, Fedez e Chiara Ferragni hanno fatto a meno della tv e si sono affidati con successo a Instagram. Questo significa che l’era del tubo catodico è tramontata per sempre? Da più parti si levano geremiadi sulle sorti del piccolo schermo, rifiutato dai più giovani a vantaggio dei vari Netflix e Youtube. Perché i giovani si interessino, bisogna creare contenuti pensati per loro e coltivarli nel tempo. A giudicare dal numero di personaggi del web che non disdegnano il piccolo schermo, la partita non è ancora finita. Per la prima volta, tuttavia, la palla dell’innovazione sembra uscita dal campo di Canale 5 (che manda in onda con buon successo quasi gli stessi programmi che vent’anni fa erano innovativi), e comincia ad avvertirsi qualche scricchiolio anche nei corridoi di Sky. Per farsi trovare pronti all’appuntamento, bisogna pensare fin d’ora al ricambio. Se le star più popolari hanno più di 55 anni, dietro di loro deve già crescere la generazione successiva, soprattutto per un mestiere che si impara sul campo, in video. Infine, esprimiamo un ultimo desiderio a nome degli spettatori del decennio venturo che rischiano di crollare sul divano peggio di noi: vorremmo essere intrattenuti, non trattenuti in ostaggio fino a notte fonda.
damiano.latella@gmail.com
D. Latella è redattore editoriale ed è stato un campione di Passaparola quiz di Canale 5