Tradurre le nostre paure le rende inoffensive
di Isabella Pasqualetto
Nel 2001, quando l’allora trentaquattrenne Rachel Cusk, canadese di nascita ma inglese d’adozione, pubblicò A Life’s Work (Il lavoro di una vita, nell’edizione Einaudi di prossima pubblicazione), mai si sarebbe aspettata di finire nell’occhio di un ciclone di critiche, attacchi personali e accuse: lei venne definita un’egocentrica narcisista alla ricerca di attenzioni, a cui sarebbe stato meglio togliere la custodia dei figli, e il suo libro venne ostracizzato come un pericoloso disincentivo alla procreazione. A Life’s Work è un memoir in cui Cusk indaga con spietata sincerità l’ambivalenza della maternità e la crisi identitaria che la accompagna, esponendo se stessa e il proprio corpo a una nudità pressoché totale, a cui solo il linguaggio fa da schermo. La rottura dell’idillio madre-figlio, oggetto di universale adorazione artistica e letteraria, portò Cusk a essere dipinta come una moderna Medea, addirittura invitata a prendere parte a programmi televisivi per difendersi in prima persona dalle accuse. Il suo successivo memoir, The Last Supper: A Summer in Italy (2009), non ebbe maggiore fortuna: venne ritirato dal mercato dopo una denuncia per diffamazione da parte di un uomo che si era riconosciuto tra le sue pagine. Nel frattempo, il matrimonio di Cusk stava giungendo al capolinea, tra litigi, recriminazioni e turbolenze che trovarono forma scritta in Aftermath (2012), un memoir in cui riflette sul divorzio e su cosa accade quando marito e moglie prendono le armi in una guerra di punti di vista. Anche questa volta, l’accoglienza critica fu disastrosa. Parallelamente ai memoirs, nell’arco di sedici anni pubblicò sette romanzi, il cui successo fu tuttavia moderato: se la scrittura memorialistica la sovraesponeva, rendendola vulnerabile a ogni tipo di attacco, quella romanzesca non le consentiva di incidere sulla realtà, suscitando tra i lettori reazioni pressappoco inesistenti.
Da questo momento, Cusk cade in quella che lei stessa definisce una “morte creativa”: smette di scrivere per tre anni, consapevole dell’impossibilità di scrivere autobiografia senza essere fraintesa, ma al contempo insofferente nei confronti delle derive frammentarie della forma romanzesca. Riflette su come temi universali quali la maternità e il divorzio suscitino un’esplosione di rabbia se a parlarne è l’io di un memoir, mentre nel romanzo qualsiasi forma di violenza o crudeltà è socialmente accettabile. “C’è qualcosa di pornografico, nella forma-romanzo”, nota Cusk; tuttavia, con la perdita del narratore onnisciente, l’universalità del romanzo era stata sacrificata a una moltitudine di punti di vista, “come in quelle coppie che tagliano in due il divano quando divorziano: non c’è più nessun divano, ma si può rivendicare una certa equità”, scrive in Transiti. Tornare all’universalità senza il narratore onnisciente elaborando una terza via tra romanzo e memorialistica diventa quindi la sfida narrativa di Cusk; il risultato è Faye, l’atipica narratrice della “trilogia dell’ascolto”, che in Italia appare nella perfetta armonia della traduzione di Anna Nadotti per Einaudi. Di Faye sappiamo poco, se non che molte sono le caratteristiche che condivide con la stessa Cusk, una scelta che non si spiega con la volontà di incasellare i tre romanzi nella categoria dell’autofiction per accostarli a Karl Ove Knausgård e Sheila Heti; piuttosto l’intenzione di Cusk era quella di evitare il pretestuoso gioco di finzione per cui l’autore scompare dietro al narratore e ne prende le distanze. Faye narra in prima persona, ma rimane un passo indietro rispetto a tutti coloro che incontra, che sono i veri attori sulla scena: essi parlano creando una polifonia di voci, ma è sempre Faye ad armonizzarle, pur rimanendo nell’ombra.
È evidente, pertanto, che Faye non è passiva. È esposta, è vulnerabile, fragile, ma è sempre attivamente presente con il ruolo fondamentale di garante della forma. Nei seminari di scrittura che tiene nella trilogia, le domande che pone agli allievi hanno l’obiettivo di indurli a osservare la realtà in modo diverso: “Ho chiesto a ognuno di dirmi qualcosa che aveva notato venendo lì”, oppure “Dovevano scrivere un racconto in cui comparisse un animale”. Gli studenti la seguono, procedendo per istinto in una lingua che non è la loro: l’inglese non è che la valuta comune della conversazione, e i personaggi, più che parlare, pronunciano, come se le loro storie fossero monologhi teatrali. Il lavoro tecnico di Cusk sulla lingua è precisissimo: all’inglese dei madrelingua, fatto di espressioni idiomatiche e colloquialismi, si sostituisce una lingua di conradiana ricchezza, su cui spesso i personaggi inciampano. Faye corregge gli strafalcioni dei suoi interlocutori, che confondono solitudine e sollecitudine, prossimità e prolissità, adattamento e arrangiamento; tuttavia il sistema linguistico non è che il suo ultimo avamposto. Per il resto, Faye è costretta a navigare a vista, inizialmente tra le acque di una città non sua, che non a caso è Atene: la vulnerabilità di Faye è la stessa degli eroi della tragedia greca obbligati dalla guerra ad abbandonare casa, famiglia e certezze domestiche per intraprendere un viaggio che, nella sospensione dell’identità consueta, racchiude tutte le potenzialità del reinventarsi. La trilogia si muove sui due assi della possibilità e del divenire: cosa può diventare la nostra vita quando usciamo dal già noto e dalle sue strutture predefinite? Nessuno degli interlocutori di Faye compare due volte, a eccezione di Ryan, che torna così cambiato da essere quasi irriconoscibile. Cusk gioca con la fissità del concetto di personaggio, demolendolo: il personaggio non esiste più, né nell’arte, né nella realtà, poiché “ciò che, coscientemente o meno, contraddistingue l’età moderna è la ricerca di affrancamento da ogni tipo di vincoli e privazioni”.
In Transiti, Faye cambia simbolicamente casa e, uscita dalla gabbia dei contesti, si trova in una zona di libertà coatta che, pur nelle sue insidie, costituisce una prospettiva privilegiata: l’unico appiglio che le rimane sono le persone e le storie che raccontano, a cui può porgere un orecchio scevro di pregiudizi, che attrae una miriade di interlocutori, che fanno la loro breve comparsa sulla scena per poi dileguarsi. Così, la trilogia assume la forma di una seduta psicanalitica collettiva: si tratta di un’implicita similitudine che, nella sua familiarità, è pensata come una bussola che aiuti il lettore a orientarsi nel dedalo di narrazioni. Gli interlocutori di Faye le rivelano gli anfratti più inesplorati della loro vita, confessandone luci e ombre “senza tema d’infamia”: raccontano il passato, e nel raccontarlo lo interpretano. La narrazione avviene in un mondo post-traumatico, dove tutto ciò che faceva paura è già successo: ora non resta che raccontarlo per neutralizzare il dolore, perché “il modo migliore per affrontare le nostre paure è metterle, per così dire, in maschera; tradurle, perché il semplice atto di tradurre molto spesso rende le cose inoffensive”, dice Christos in Resoconto. In questa moderna isola dei Feaci, la suspense non esiste, perché l’idea di destino è annoverata fra le tante forme di autoinganno nella vita degli uomini. Faye è ben consapevole della “crudele accidentalità della vita reale”, ma non batte ciglio di fronte ai toccanti tentativi di interpretazione degli altri personaggi, le cui narrazioni si aggrappano a traballanti chiodi da parete che prendono la forma dei vari “ormai l’aveva capito”, “adesso ne era certo”, “ora lo sapeva” che puntellano i loro resoconti. La narrazione è una forma di esercizio del potere, che nella migliore delle ipotesi diventa un tentativo di rintracciare un qualche disegno nella vita umana, ma che nella gran parte dei casi si risolve in un’arringa difensiva per proteggerci dai nostri fallimenti. “Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici?”, si chiedeva Julian Barnes; Faye lo sa, sa che “la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato”, e che preferiamo raccontarla a noi stessi, per non correre il rischio che qualcuno contesti la nostra versione dei fatti. E non è casuale la presenza di animali, perlopiù cani, all’interno della trilogia: essi appaiono come interlocutori privilegiati proprio perché privi della possibilità di ribattere, ma al contempo dotati della capacità di oggettivare l’essere umano, di ricordargli che è reale, mettendolo al riparo dalla sua vulnerabilità.
Le narrazioni toccano tutti i temi principali nell’arcipelago della vita umana, muovendosi con scioltezza dall’individuale all’universale: dal divorzio come rottura del duetto narrativo di una vita, passando per il divorzio delle donne dalle identità parziali che vengono loro assegnate, fino ad arrivare al divorzio per eccellenza, la Brexit; dal successo al fallimento, spesso incarnati da coppie antitetiche di fratelli o sorelle; e poi la perdita di riferimenti, sovente confusa con la libertà, e la verità, l’integrità, l’autogiustificazione, e la nostra abitudine a confondere cambiamento e progresso. E infine la violenza, la crudeltà, che carsicamente tesse le sue trame sotto la superficie della trilogia, ma che emerge con forza solo nel finale di Onori: fino a quel momento Faye aveva raccolto i tasselli dei resoconti altrui per ricostruire la propria identità, ma era necessario un definitivo atto di violenza perché fosse veramente libera. Dopodiché, Faye “si è alzata e se n’è andata”, come recita l’epigrafe di Onori, poiché “era l’ultima occasione davvero l’ultima perché / dopo non avrebbe potuto / alzarsi e andarsene mai più”. E Cusk, come il Prospero shakespeariano, può chiudere il sipario.
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I. Pasqualetto è laureanda in letteratura inglese all’Università di Torino