Intervista a Grace Paley | Dall’archivio

Una storia che nasce

 

Grace Paley risponde a Mario Materassi

Dal numero di gennaio 1988

L’intervista che segue ha avuto luogo il 17 novembre scorso a Milano, dove Grace Paley si trovava per presentare la traduzione del suo terzo volume di racconti, Più tardi nel pomeriggio. Per certi aspetti, la Paley che parla è molto simile alla Paley che scrive: ciò che emerge all’udito (così come ciò che emerge alla vista, sulla pagina) è soltanto una parte, e non sempre la più importante, del discorso globale. Il filo (chiamiamolo rosso) della comunicazione appare e scompare dietro pause e zone opache che lo nascondono, ellissi che non sono dei vuoti bensì, come presto si impara a capire, dei “pieni” che in qualche modo pur vengono comunicati. In qualche modo, appunto. Sulla pagina, si tratterà della delicatissima strategia compositiva che costringe il destinatario a supplire, a integrare, a fare a meno – in ultima analisi – di nessi i quali, dopo il primo impatto con la sua pagina, si rivelano inessenziali alla comprensione ed anzi, nella loro assenza, condizione essenziale al coinvolgimento intellettuale del lettore. All’ascolto, le modalità di questa comunicazione frammentaria sono ovviamente affidate anche all’empirico dello sguardo, della gestualità, del tono; ma anche qui, il non detto è altrettanto essenziale di ciò che è detto. La Paley si affida, nel suo discorso, a un parlar comune che disarma: nessuno sfoggio linguistico, ma al contempo nessuna civetteria dello sciatto o del gergale. V’è qui, da un lato, la tradizione americana del comunicare col cuore in mano, del presentarsi nella propria individualità specifica senza maschere sociali, senza impegni di depistami culturali. Dall’altro, la Paley tien fede, anche nel parlato, alla sua poetica delle cose minime, che sono però anche (ecco l’abissale differenza con i cosiddetti minimalisti) profondamente importanti perché tali rese dalla sua raffinatissima scrittura. Ecco: se una forma di depistiggio avviene, nel discorso della Paley, è in quel suo minimizzare la propria consapevolezza dei suoi complessi procedimenti compositivi. Forse un vezzo anch’esso tipicamente americano (lo scrittore che si nega intellettuale); ma anche una forma di modestia che e segno di grande sicurezza.

Fra la forma dei suoi racconti e la sua concezione della vita sembra esservi un rapporto molto stretto. In Conversazione con mio padre Faith dice: “Chiunque, reale o inventato, merita il destino aperto della vita”.

Ne sono convinta!

Davvero, ne è convinta?

Faith ne è convinta.

Questo apre il problema di lei, e di Faith; ma ci torneremo dopo. Non c’è contraddizione fra il concetto di destino e quello di apertura?

Questione di parole. Secondo me, l’idea del destino aperto della vita significa che tante cose sono possibili. Ad esempio, per quanto riguarda ciò che scrivo, in realtà io non so come si svilupperà. Per questo non uso intrecci. In quel racconto, Faith è me. Quello è, in realtà, mio padre, e quella sono io, anche se la conversazione è tutta inventata, e la storia nella storia è tutta inventata. Però avevamo di quelle conversazioni, e lui mi diceva, “Perché non scrivi un racconto vero?” E io cercavo di spiegargli. Ma discutevamo anche di altre cose, non soltanto di letteratura: della vita, di ciò che può succedere nella vita; e la letteratura mi serviva per mostrare la differenza d’ordine storico che c’era fra di noi. Io vivo negli Stati Uniti, credo nel destino aperto della vita; lui non credeva nel destino aperto: secondo lui, era la conformazione del carattere che dettava ciò che uno diventava, ed era tutto deciso. Era emigrato negli Stati Uniti, e penso credesse che uno decide da giovane che cosa farà, e poi cerca di realizzarlo. Mentre io, della generazione successiva, pensavo che avrei potuto fare qualsiasi cosa volessi fare, in qualsiasi momento. Per questo in un certo senso quella conversazione è una discussione fra generazioni, che interessa la storia quanto la letteratura. Detto a questo modo mi fa sembrare una che si sente importante, il che non è vero. Credo però che in quel particolare racconto sia proprio questo ciò che avviene: rappresenta la differenza fra due persone che in realtà sono un po’ la stessa persona – mio padre ed io. Ha a che fare con le nostre idee sulla letteratura, ma in realtà diventa una conversazione su ciò che può avvenire nella vita.

Allora c’è, sì, uno stretto rapporto fra la forma del racconto e la sua concezione della vita.

Sì, in modo particolare in quel racconto.

Che cos’è, per lei, un racconto?

Di questo litighiamo sempre, con mio marito – anche lui è uno scrittore. Lui dice, “Oh, io non scrivo racconti”. E questo mi fa arrabbiare: scrive una sorta di prosa, una sorta di invenzione, che io chiamo racconto. Un racconto, tanto per cominciare, è un brano in prosa che racconta una storia; benchè una volta le storie venissero raccontate in versi. Poi però la poesia ha rinunciato a questa funzione, oppure la prosa l’ha fatta propria – una cosa o l’altra, non so com’è successo. Ma è un peccato che la poesia abbia perduto quella funzione, per cui adesso la prosa è la padrona del raccontare storie. Secondo me un racconto, quando funziona davvero – un racconto, diciamo così, che vale la pena fare – di solito consiste di due storie: non si ha un racconto se non si hanno due storie. Questo non vuol dire che io faccia sempre così; ma di solito, in qualche modo, quello che deve venir fuori è una terza storia.

Immagino questo abbia a che vedere col rapporto fra lo “ora” della voce narrante e lo “allora” dell’oggetto narrato.

Be’, a volte è così, e altre volte sono chiaramente due storie, come in Conversazione con mio padre: c’è la storia di Faith e di suo padre e la storia che Faith scrive per suo padre. Oppure in un racconto intitolato Da qualche altra parte, che ha a che vedere con la Cina: due storie del tutto diverse, che separatamente non funzionerebbero. O La storia degli immigranti, che consiste di due storie: il dialogo fra due persone, e la storia della famiglia immigrata, raccontata nell’ultimo paragrafo; e né l’una né l’altra funzionerebbero da sole. È così, in realtà, che lavoro, è questo ciò che mi interessa. E penso che risalga all’infanzia: il bambino torna a casa e dice, “Lo sapete cosa m’è successo oggi?”, e racconta una qualche storiellina su qualcosa che è successo quel giorno. Per questo ogni racconto ha in sé questa frase, “Voglio raccontarvi una cosa”: qualsiasi racconto, non importa di che tipo. Deve esserci questa tensione fra lo scrittore e la pagina, e fra la pagina e il lettore, cha fa scaturire quel “Voglio raccontarvi una cosa”. E così che ha inizio un racconto.

E la fine? Quando finisce, un racconto?

Ho parecchi problemi, con la fine; con ciò che costituisce la fine. Secondo me, è quando non si ha più niente da dire! [Ride], Non saprei come altro spiegarlo. Non ho un’idea più elegante, in proposito. Certo, bisogna sapere di che cosa si parla: certuni non finiscono mai, vanno avanti per sei mesi! Sto cercando di pensare a racconti diversi per fare qualche esempio. C’è un racconto, In giardino, che comincia in un modo e poi parte in un’altra direzione: non so come capissi che era lì che finiva, ma d’un tratto quella divenne l’essenza del racconto.

Dal padre delle bambine rapite, al visitatore.

Sì, e poi la vecchia, che è molto malata. Ma ricordo di essermi posta questa domanda, mentre lo stavo finendo, e capii che la fine era quella, assolutamente. Per cui, l’unica cosa che posso pensare è che non ho veramente nient’altro da dire in proposito – nient’altro da raccontare. Qualsiasi altra cosa sarebbe un di più, e andrebbe al di là del mio concetto di forma, che è quello di dire semplicemente ciò che si ha da dire, e niente più.

A volte, lei lascia qualcosa per aria, perché il lettore supplisca.

Sì, è vero.

E questa è una cosa che colpisce, nella sua scrittura. Li ‘usa’ il lettore, lo porta in zone dove nessuna convenzione letteraria lo ha mai abituato a andare. Lei indica una certa strada, e noi lettori ci incamminiamo tutti contenti – e poi d’un tratto la strada finisce, e dobbiamo fare un salto verso un paesaggio narrativo diverso.

Sì. Ciò in parte deriva dal fatto che, in origine, scrivevo poesia. La questione dei salti è una licenza poetica – e il racconto, secondo me, deve approfittare della sua vicinanza alla poesia per fare operazioni analoghe.

Ma nel costringere il lettore a fare questi salti, lei indirettamente compie una dichiarazione poetica.

Sì. E questo che intendo quando dico, ‘Non ho più niente da dire’: perché magari, a quel punto, ho appena scoperto di che cosa tratta il racconto; o ho appena scoperto come raccontare quella storia. Prenda l’ultimo racconto di quest’ultimo libro, Ascoltare. Originariamente non avevo alcuna intenzione di concluderlo a quel modo. Faith ascolta tanta gente che le racconta qualcosa, quindi racconta al suo uomo, a Jack, tutte queste storie su come lei stia ad ascoltare; poi alla fine parla con la sua amica, e questa si arrabbia molto; viene fuori che Faith non stava mai ad ascoltare, che non prestava nessuna attenzione. Perciò, in un certo senso, fino a che quella conclusione non mi è venuta (ed è questa la ‘verità’ del racconto), non sapevo che fare, del racconto. Non potevo certo continuare a farla ascoltare altre trenta conversazioni! Per cui uno scrive un racconto (penso che altri lo abbiano già detto) nel tentativo, diciamo così, di trovare un racconto.

Allora lei mai, o solo di rado, ha in mente l’intero congegno.

Proprio così. Soltanto quando è molto breve. Alcuni dei racconti molto brevi li ho pensati come un tutt’uno.

Eppure lei avrà il senso di ciò che può svilupparsi e diventare un racconto. L’operazione di selezione deve pur esserci.

Sì. Ma a volte viene semplicemente dalle righe iniziali, oppure da una voce che parla in un certo modo. Certo, c’è selezione. Certo, ascolto quella voce perché dentro la mia mente c’è qualcos’altro a cui sto pensando. È vero.

Nel suo caso, quanto legittimo è compiere quello che, nella critica, è il delitto più grave – identificare la voce con lo scrittore?

Be’, è vero — sono io! [Ride], Voglio dire, nel caso di Conversazione con mio padre il racconto rappresenta una discussione che soltanto io avrei potuto avere con mio padre — e soltanto con mio padre. Tutto il resto è invenzione.

Ma quel racconto è parte di un gruppo di almeno una quindicina di racconti tutti incentrati su Faith.

Negli altri racconti, Faith è una persona differente. Ha una vita completamente diversa dalla mia. Anche suo padre è diverso dal mio. Diciamo che negli altri racconti ci sono magari degli elementi miei e degli elementi di mio padre.

Non le domando se Faith sia stata modellata su una persona reale. Quello che vorrei sapere (dato che Faith, in tutti i racconti che la riguardano, è una figura coerente pur nel suo evolversi) è se ci sia qualcosa in questo personaggio che lei ha tratto da se stessa.

Be’, se le dicessi di come cominciò il primo racconto di Faith … Non aveva niente a che fare con me. E nel primo volume, s’intitola Allevare ragazzi usati. Lo spunto mi venne quando andai a trovare una persona che poi sarebbe diventata mia amica, ed entrambi i suoi mariti – il primo, e quello attuale – erano presenti; ed entrambi stavano dicendole, “Be’, queste uova sono un disastro!”. Io stetti lì a guardare, e poi me ne andai. La settimana che mi misi a scriverlo, quella scena ce l’avevo sempre in testa: a quell’epoca (il racconto lo scrissi quasi trent’anni fa), una scena del genere era piuttosto fuori del comune, a differenza di oggi.

E così lei scelse Faith, come se avesse avuto una specie di intuizione che quella figura, quel nome, quelle sue relazioni, si sarebbero poi rivelate una miniera di possibilità narrative.

In realtà non sapevo, allora, che avrei scritto tanti altri racconti imrniati su Faith. In quel primo voume, quello è l’unico racconto in cui lei compaia. Ed è proprio così – qualcun altro mi ha fatto la stessa domanda, tempo fa, e io risposi: “Sì, Faith lavora per me”. In questo senso ha alcune delle mie idee. Potrebbe facilmente essere una delle mie amiche.

O forse un insieme di più d’una.

Sì. In quel racconto, Faith viene fuori con forza contro Israele, dichiarandosi dalla parte della diaspora piuttosto che da quella del ritomo ‘a casa ‘. È questa, per caso, la sua posizione personale nei confronti di Israele? Be’, se dovessi scriverlo oggi, ci andrei più cauta. Sarei allo stesso tempo più delicata, e più dura. E più arrabbiata, se ne scrivessi oggi. Quando rileggo quel passo, non riesco a ricordare se all’epoca stessi discutendo di queste cose con qualcuno. Ma come lei sa, io vengo da una famiglia socialista che era fortemente anti-sionista, e ho ereditato molte di quelle idee. Tuttavia, ho sempre avuto un forte interesse per Israele — ci sono stata anche di recente. Però io credo nella diaspora; su questo non ci sono dubbi. Sono felice che noi ebrei siamo qua, adesso: secondo me, è una bellissima cosa che gli ebrei vivano in ogni parte del mondo.

Lei lo dice splendidamente, in quel racconto: “… il loro destino non è geografico, ma storico. Non devono occupare spazio, ma continuare nel tempo”.

Sì, è esattamente quello che credo. D’altra parte, loro sono là — che possiamo farci? [Ride]. Possiamo soltanto augurar loro ogni bene. La sua partecipazione non arriva oltre, dunque. No, sono molto preoccupata. Secondo me stanno sbagliando tutto, ho paura per loro. E dopo esser stata in Israele, penso che anche loro abbiano paura. Hanno scelto un brutto posto, come casa! [Ride].

Non è che uno se la scelga, casa sua!

Vero. Ma in Israele ho parlato con un sacco di gente, anche nei kibbutz, e anche loro sono in ansia per i loro figli; non tanto per la questione della sopravvivenza o meno, quanto perché l’idealismo, l’idealismo sociale, sta scomparendo, dato il tipo di immigrazione esistente. E anche a causa della mano pesante della teocrazia: voglio dire, Israele non è meno alla merce del fondamentalismo di quanto non lo siano gli Stati Uniti o l’Iran.

Per tornare alla sua scrittura. Nei suoi racconti, lei sembra deliberatamente rigettare certe convenzioni. Un esempio minimo: sempre meno lei usa le virgolette per il dialogo. Ho una mia ipotesi, in proposito, ma vorrei sentire lei.

In parte, credo di non averne bisogno. Poi, secondo me, le virgolette rendono la pagina orribile a vedersi. Non so, forse dovrei tornare a usarle. In genere molti dei dialoghi sono, per così dire, sia esterni che interiori — la gente ode gli altri che pensano, e sarebbe difficile… non ho il cervello per trovare un modo di farlo capire.

Non credo proprio che questa sia la ragione!

No, infatti. Secondo me, i lettori capiscono. Ho trovato un’unica persona che non l’ha capito, e questa era l’attrice tedesca che la settimana scorsa, a Berlino, doveva leggere uno dei miei racconti. Proprio non l’aveva capito.

Forse è stata tanto sfortunata da essere l’unica che ha mai dovuto ammetterlo.

[Ride]. Probabilissimo!

Perché nei suoi racconti nulla è propinato: il lettore deve contribuire alla creazione del senso.

Sì, questa idea mi piace. Sono convinta che il lettore debba contribuire – e lo fa comunque, poi, sia che io lo desideri oppure no. Il lettore completa il racconto di qualsiasi scrittore, non soltanto il mio. Forse la progressiva scomparsa delle virgolette ha a che fare col fatto che, inserito fra quei segni, il dialogo dà il senso di essere come scolpito nel marmo.

Giusto. E’ così.

Diventa storia. Laddove lei tende a creare un medium che è più…

… fluido, sì. Sono d’accordo. Quanto lei dice concorda con il mio modo di vedere le cose. Non mi piace mettere le cose su pietra, non molto!

E la sovrapposizione dei piani temporali in certi racconti, come in Faith su un albero…

Non sarei in grado di giurare sulla ragione per cui lo feci, ma mi sembro la cosa giusta da fare. È un modo per fare capire che la gente sa quello che passa per la testa degli altri – anche se ciò che pensano potrebbero benissimo averlo detto. Ma non l’hanno detto, giusto? Comunque, una delle ragioni è semplicemente il  gioco – c’è una certa dose di gioco, in tutto ciò.

Nella scrittura, o nella storia stessa?

No, nella scrittura. Queste cose si fanno un po’ anche per gioco. Non sottovaluterei questo aspetto.

Riscrive molto?

Oh si, moltissimo. Quel racconto mi prese molto tempo – soltanto il primo paragrafo mi prese un paio di mesi, in pratica. È ovvio che facevo anche altre cose, oltre a quello – andavo a fare la spesa, e così via. In realtà, però, scrivevo e riscrivevo anche mentre stavo facendo qualcos’altro: tornavo a quel paragrafo, e lo riscrivevo. Ci misi molto tempo a portare quel racconto dove lo volevo.

E la forma del romanzo non la interessa?

Mi interessa, sì, ma non riesco a padroneggiarla. Voglio dire, ho un’idea che mi piacerebbe sviluppare in un romanzo breve, ma per una ragione o per un’altra non riesco a padroneggiarla. Una volta lavorai a un romanzo, ne scrissi centocinquanta pagine – ed era orribile. Era tutto sbagliato. Dopo il mio primo volume di racconti, pensavo che avrei dovuto scrivere un romanzo: ero molto ligia ai voleri dell’editore. Ma non so perché, mi sentivo come se stessi imitando qualcuno. Era tutto falso, rispetto a quello che avevo in mente. Ritengo che la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia sia stata non finire quel romanzo – be’, diciamo una delle due o tre cose migliori!

Adesso sta lavorando a un’altra raccolta di racconti?

Be’, lavoro a dei racconti. Quando ne avrò abbastanza, ecco la raccolta!

Vi sono stati degli scrittori che sono stati importanti per la sua formazione?

Oh, credo che tutti gli scrittori siano stati importanti per la mia formazione, nel senso che quando ero giovane leggevo moltissimo. Amavo gli scrittori della tradizione inglese – Joyce, Proust. [Ride]. Senti questa: la tradizione inglese, e Proust! Evidentemente lo sento in quella tradizione, no? Tutti sono stati importanti nella mia vita. Ma anche molti poeti, come Yeats, Jeffers, Auden. Credo però che i racconti di Joyce abbiano avuto più influenza di quanto mi renda conto, per ciò che riguarda la mia concezione della forma e del linguaggio. Con i miei amici, leggevamo ad alta voce. Ancora leggo Ulisse ad alta voce. E lavoro ad alta voce – penso ad alta voce. Una storia, più che sulla carta, la voglio dentro di me; voglio che mi esca dalle labbra.