Una storia equivoca e terribile
recensione di Matteo Moca
Adriano Sofri
Il martire fascista
248, € 15
Sellerio editore, Palermo, 2019
Nelle pagine che introducono la sua dettagliata analisi delle carte del processo in cui è imputato, Carlo Ginzburg scrive che la decisione di Adriano Sofri di non avvalersi della facoltà di ricorrere in appello è, oltre al tentativo di sottrarsi a un’assoluzione procrastinata, «meno piena, meno limpida, quasi oscurata da un’ombra», anche la testimonianza di un tratto profondo del suo carattere, che proprio le ombre rifugge ed è insofferente a qualsiasi compromesso (il libro a cui faccio riferimento è Il giudice e lo storico, di cui è prevista a breve una ristampa per Quodlibet dopo le edizioni Einaudi e Feltrinelli). Anche i lettori sinceri di Adriano Sofri, attraverso il mezzo interposto dei suoi libri, hanno imparato a riconoscere questo tratto del suo carattere richiamato da Ginzburg: che infatti Sofri si sia concentrato sul caso Moro (L’ombra di Moro), sul carattere dirompente e contemporaneo del Principe di Machiavelli (Machiavelli, Tupac e la Principessa), sulle indagini sulla vicenda di Mauro Rostagno (Reagì Mauro Rostagno sorridendo) o su un piccolo e decisivo spostamento di senso di un’opera di Kafka (Variazione su Kafka), è sempre stato fondamentale il suo desiderio di fare chiarezza, di rimuovere le ombre dalle storie per garantire un’analisi corretta e imparziale dei fatti e delle vicende.
Lo stesso accade con il suo ultimo libro, Il martire fascista, sempre edito da Sellerio come tutti gli altri citati in precedenza, dove forse la sua opera letteraria raggiunge uno dei suoi punti più alti, sicuramente più interessanti, per la materia narrata e per la modalità scelta per farlo. Il martire fascista è infatti Francesco Sottosanti, un maestro di scuola elementare, originario della Sicilia, che al termine della prima guerra mondiale va a insegnare a Gorizia, città recentemente annessa all’Italia e quindi bisognosa, secondo Mussolini e il fascismo, di una «bonifica etnica», una italianizzazione anche forzata. Ma nel 1930, nei pressi di Gorizia, Sottosanti viene ucciso da un gruppo di antifascisti sloveni che però capiranno solo dopo di aver sbagliato obiettivo: non era infatti Francesco il maestro violento, ma suo fratello, Ugo, che maltrattava gli allievi perché non erano in grado di parlare bene l’italiano, arrivando anche a sputare loro, lui che era pure affetto da tisi (elemento raccapricciante a cui Sofri dedica un’indagine che sembra contraddire in parte l’affermazione). Il libro di Sofri ricostruisce questa storia, ma non si ferma qui, perché leggendo le sue pagine, e già dal primo capitolo, si capisce immediatamente che questa ricerca si distacca da molte altre, anche per il semplice fatto di mettere in scena l’autore stesso. Adriano Prosperi, in riferimento a Il martire fascista, ha scritto che si tratta di un libro su cui sarà necessario continuare a guardare e su cui riflettere in futuro perché vi si incontra «un vero modello di come si possa fare ricerca storica su materia incandescente e su vicende, persone, terre e cose legate alla propria vita dando prova di quello che si potrebbe definire un distacco appassionato e sapiente sulle sofferenze umane». Questo è uno dei motivi che porta a immaginarlo come uno dei fondamentali punti di snodo dell’opera di Sofri, che sembra qui raggiungere l’amalgama perfetto della materia presente anche nei suoi altri lavori: la ricerca storica sulla vicenda di Sottosanti è sostenuta fisicamente da Sofri che si muove tra Trieste, la Slovenia, Parigi e la Sicilia, tra gli archivi e i dialoghi con le persone, per cercare di giungere al cuore delle cose, di rimettere insieme tutti i frammenti che nel corso dei decenni erano scappati in molteplici direzioni. Grazie a questa attenzione la sua analisi non si ferma semplicemente all’evento del 1930, su cui comunque fa chiarezza, ma giunge anche al 12 dicembre 1969, il giorno della bomba di Pizza Fontana, evento tragico che vede coinvolto anche Antonio Sottosanti, «Nino il mussoliniano», figlio di Ugo, per la sua somiglianza con Pietro Valpreda e per la sua presenza sul luogo dell’attentato.
Anche la madre di Sofri era una maestra e anche lei negli anni Trenta insegnava in una scuola che si trovava nel triestino, luogo di nascita di Sofri: ecco perché la ricerca sul maestro «martire fascista» porta lo scrittore a interrogarsi anche sulla sua vita, sul luogo da cui viene e sulla particolare funzione che riveste il confine nelle esistenze quotidiane, paradossalmente oggi spesso discusso ma su cui, questo suggerisce Sofri, poco ci si concentra considerandolo, noi che ci troviamo dalla parte serena del mondo, come un elemento scontato. Il libro di Sofri, come molti libri di storia dovrebbero fare, riesce a lasciare nel lettore una volontà di conoscere le storie e di imitare le modalità di ricerca dell’autore (basandosi dunque su documenti, spirito giornalistico, cronaca e narrazione), oltre che a impressionare nella mente le immagini di quelle che sono state le vittime più inconsapevoli e colpite, i bambini sloveni nelle scuole italianizzate, ma anche gli uomini e le donne che si trovarono a vivere in quella dura situazione.