Ritratto dell’artista da giovane
di Dario Gattiglia
Da circa due anni, L’Editore Cesare Pavese di Gian Carlo Ferretti è disponibile nella bella edizione della Piccola Biblioteca Einaudi; è da quasi vent’anni, invece, che si nasconde nello stesso catalogo il libro gemello dedicato dallo stesso Ferretti a un transfuga siciliano che per i sudditi del divo Giulio incarnò a lungo la Milano rivale. «Non si poteva einaudizzare Elio Vittorini», lamentava a quel tempo Pavese: a maggior ragione se anche l’editore in persona difendeva chi più tardi avrebbe ricordato alzarsi di notte «per preparare un discorso di rottura, per buttare all’aria gli schieramenti» ai più importanti premi internazionali; Giaime Pintor, vero santo martire della Casa, ne aveva poi dato un endorsement quasi totale, che forse pesava ancora. Più tardi, anche Italo Calvino ammetterà: «Quando è certo, non ci sogniamo nemmeno d’intralciarlo»; lui per primo aveva lasciato nel cassetto, dietro consiglio del collega, un intero libro a oggi non ancora riemerso. Vittorini aveva nel frattempo conquistato una libertà di movimento quasi inaudita: consulente per due case diverse, rimaneva sotto contratto con una terza come autore. Da subito proverbiali furono la sua energia – Malaparte il primo maestro – e il suo vitalismo quasi ottocenteschi: si dice che il conterraneo Quasimodo si fosse trovato a dare la caccia alla sorella Rosa fuggita per amore, e che la stanò in albergo proprio con Vittorini. Di lì a poco, il nemmeno trentenne Vittorini viveva solo della propria attività editoriale: in quegli anni, appena un decimo degli intellettuali contemporanei ci riusciva. Durante gli anni trenta – il decennio delle traduzioni – Vittorini fu un vero «operaio» della penna, e a furia di lavori arrivò a maturare un proprio gusto letterario: «Traducendo ho imparato anche a detestare», per esempio, è una grande definizione del mestiere. Talvolta consigliò lui stesso libri «meno belli» da tradurre ma di cui c’era richiesta editoriale. Nacquero per Bompiani libri inesistenti, antologie di riviste dei secoli scorsi, illustri saggi smontati e rimontati per estrarne il «romanzo», tutti cuciti sulla misura di un lettore più che ideale. Il suo tradurre sforò nell’editing selvaggio: farà tanto scuola che, quando da narratore venne accusato di americaneggiare, sbotterà: «Conosciuti nelle mie traduzioni, solo non si pensa che quel “linguaggio” è il mio».
L’opera migliore del periodo Bompiani rimane infatti Americana, insieme a Il partigiano Johnny il grande libro in pezzi del nostro periodo bellico. Un’introduzione acuta, faziosa e gradita al regime di Emilio Cecchi – autore di America amara – sostituì il romanzo delle note vittoriniane, faziosissime; il loro autore riuscì comunque a riciclarle, come fonte critica fittizia. Sappiamo di un unico criterio: «I traduttori saranno tutti scrittori», per cui l’antologia illustrata diventò più che altro un’antologia di traduttori: i più illustri furono Vittorini stesso, Landolfi, Moravia e un Pavese guest star d’eccezione. Un terzo delle pagine fu però affidato a Montale, in grave crisi economica. Per il Vittorini intellettuale e editore formatosi in questi anni, la capacità di presa sul lettore parte da subito, dal titolo; celebri i suoi coni all’Einaudi: Il mare non bagna Napoli, Il sergente nella neve, il rifiutato Racconti barbari che doveva introdurre Beppe Fenoglio al pubblico. Un gusto che sulle pagine del Politecnico spinse il direttore a proporre un Chorus di Eliot come Canto della classe operaia. Dalla copertina si passa al risvolto: perché, scrive Ferretti, quello vittoriniano è un «vero e proprio genere critico, letterario e editoriale»: ne è addirittura l’inventore vero e proprio, in Italia. La stima guadagnata fu tale da permettergli, in caso di sconfitta al consiglio, di rifarsi talvolta nell’aletta e sconsigliare i libri usciti nei suoi Gettoni. L’avventura del curatore trova infine territori da scoprire dentro il libro: Americana fu solo l’apice di una lunga passione per la caccia all’immagine, all’illustrazione perfetta; Vittorini avrebbe compulsato cataloghi per Pantheon come per i Millenni Einaudi, suggerito tagli per le foto d’autore dei Gettoni, sarebbe anche ritornato su uno dei suoi pochi libri che l’aveva lasciato soddisfatto, Conversazione in Sicilia, per curarne un’edizione illustrata.
Immagine tratta da federiconovaro.eu
Non volle però mai metter mano ai risvolti delle proprie uscite. Con meno sicurezza si formò infatti la sua opera narrativa, composta in gran parte da incompiuti e attraversata da una «fifa tremenda» dei «periodi troppo soggettivi»: pubblico o privato, ogni evento poteva cambiare la «verità» momentanea di autore e libro. L’abitudine di anticipare in rivista brani estratti dalla prima stesura svelava maggior fiducia nel work in progress rispetto al «gesto sempre ottimista», dunque alla responsabilità, di pubblicare. Il suo titolo – in tutti i sensi – migliore resta allora il paradossale Diario in pubblico del ’57, dove Vittorini «frantuma al massimo» la propria attività extra-narrativa per produrre, di nuovo, un «romanzo». Fu editor particolarmente infedele.
Anche Maria Corti sentirà di dover giustificare l’operazione di due Meridiani esclusivamente dedicati al narratore, e la sua attenzione volgerà al sistema più che al libro singolo. Se il traduttore fu «operaio», l’autore fu infatti «ingegnere» di se stesso, sempre impegnato a misurarsi: Erica e i suoi fratelli è «l’antefatto di un romanzo rimasto interrotto», Conversazione in Sicilia «non è un romanzo, ma è una suite di dialoghi» come Il Sempione strizza l’occhio al Frejus ne fornisce una «variante». Le città del mondo uscirà anche in forma di sceneggiatura, quando l’autore sperava di cavarne tre romanzi brevi. «Avrei scritto una prefazione più lunga dello stesso libro» si tormenta nell’introduzione a Uomini e no, titolo poco stimato, e capito («È il titolo di un problema che Vittorini si pone» capì invece Noventa). Figurano, tra i suoi personaggi: un partigiano che non agisce, un ex fascista che riscopre la società, una mitica città cercata, ma per abbandonarvi qualcuno.
Questo irregolare ben saldo ai vertici dell’industria culturale – dunque privo di possibili culti postumi – fu anche comunista mai tesserato, preoccupato perché «tutta la mia concezione va più verso Dostoevskij che verso Marx»: come il Robinson Crusoe rimase per lui il libro chiave per leggere l’economia moderna. Si staccò dal partito già nel ˈ51, quando si accorse che l’uomo marxista ««vive nella spaventosa solitudine di un rapporto con l’idea», mentre la narrativa borghese almeno «è carica di necessità di uscirne, è ricerca per uscirne»; pare che nello stesso anno abbia accarezzato l’idea di raggruppare i molti amici e trasferirsi, in Canada o Nuova Zelanda.
Tuttavia, l’annus horribilis ˈ56 fu per lui, al contrario di molti altri, quello del ritorno alla politica, dopo la morte del figlio Giusto. Ma Vittorini rimase il militante dell’«engagement naturale», capace di votare un partito diverso per camera («Vuol dire che correggerò il mio voto alle prossime elezioni»), di rifiutare per scrupolo un viaggio in Jugoslavia come negli amati USA, di candidarsi simbolicamente – e onestamente dimettersi – per il PSI . Da questa ansia globale procede un famoso giudizio di Fortini, compagno nel Politecnico: «Credeva alla gioventù come a una giustizia. Non volle mai sentirsi ingiusto. Invecchiare gli fu difficile». Il Politecnico, I Gettoni e il menabò sono le tappe del lungo romanzo einaudiano di Vittorini. Il primo fu il grande giornale murale e il foglio più bello dell’immediato dopoguerra: dopo la chiusura, Vittorini volle rimanere nello stesso palazzo del suo grafico, Albe Steiner. Opera di «compagni di strada», il suo enciclopedismo sfrenato – dalla grande inchiesta al fumetto – avrebbe opposto per primo Vittorini e il PCI distributore, nella persona di Togliatti. Rispondendogli, Vittorini sparigliò le carte: la cultura di partito era «modo arcadico» e quello della verità il «possesso» peggiore di tutti. Di lì a poco, il Politecnico chiuse.
Furono anni particolarmente fecondi per il narratore. Un lustro dopo, nacque la «collana-rivista» dei Gettoni: Arpino, Fenoglio, Ottieri, Testori, Rigoni Stern, Lucentini, Bonaviri, Romano esordirono tutti qui. Famigerati il rifiuto de Il Gattopardo (ma Vittorini fu sempre difeso dal figlio di Lampedusa) e le critiche a La malora (ma «dobbiamo valorizzarlo al massimo» scriveva il direttore a Calvino).Tuttavia, quando Einaudi chiese a Vittorini di spostarsi a Torino, ebbe una risposta orgogliosa: «Siamo stati vicini agli autori». L’interruzione della collana impedì di accogliervi un nuovo americano: Jerome David Salinger; l’ingegnere Vittorini aveva fatto anche in tempo a segnalare la misteriosa «opera incompiuta» di uno dei molti scrittori non professionisti a cui puntava la collana: Carlo Emilio Gadda.
Dalla «collana-rivista» si passò quindi alla «rivista-collana» con il menabò di letteratura: un numero per anno, e tutto il tempo di pubblicare fianco a fianco i reduci di «Officina» e gli enfants terribles neoavanguardisti, di dedicare un numero pionieristico a «Industria e Letteratura» (per poi bollare il tema come «solfa» nei successivi), di progettare una spericolata «rivista di critica totale» italo-franco-tedesca, Gulliver, sostituendo la copertina del menabò stesso con quella dell’immaginario periodico.
Vittorio Sereni ricorda un Vittorini, nel suo ultimo biennio, istituire quasi come un dovere la collana di Nuovi scrittori stranieri per Mondadori, indirizzata ai giovani che ormai «si educano tra di loro». Ma il «vecchio miscredente» continuò anche il percorso in casa Einaudi, contribuendo alla nascita di altre due collane nuove: una Nuova Biblioteca Scientifica Einaudi e, soprattutto, un Nuovo Politecnico. Chissà se aveva in mente il suo vero esordio editoriale, lo Scrittori nuovi con cui aveva aperto, anche lui giovanissimo, i lontani anni ˈ30, già in dubbio se «ci facciamo la figura dei vecchi». Negli ultimi giorni in clinica, Vittorini ebbe l’idea per il suo ultimo lavoro incompiuto: un romanzo di dialoghi al telefono, ispirato dal lavoro che ormai conduceva a letto. Stava infatti attendendo con l’amico Enzensberger a due fascicoli che rilanciassero Gulliver, mai andata in porto. Morì dello stesso male che aveva ucciso Giusto. Il menabò non gli sopravvisse, e Rigoni Stern intitolò Non andammo in Canada un suo ricordo. Da allora Fortini, Bilenchi, Solmi e Sereni, hanno tutti lasciato pagine in cui Vittorini appare loro, in sogno o quasi.