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di Marina Petruzio
Salta subito agli occhi, Brio, non solo perché la prima volta che lo vediamo disegnato sulla pagina bianca in Il pensiero di Brio, un racconto del maestro Lodi illustrato da Emanuele Luzzati (Panini, 2007), è a capo chino davanti alla maestra. Sembra molto stanco e anche le righe blu-marino della maglietta con la quale Luzzati lo veste sono quiete, non tradiscono movimento se non quello che una riga ha naturalmente. Ma qui sono nette, tracciate a pennarello; vanno da parte a parte senza sfumature. Eppure sono proprio loro, le righe, ad attirare l’attenzione su Brio e a farlo balzare agli occhi facendo fermare lì il curioso. Poche pagine più in là Brio salta e balla, sembra quasi un Arlecchino bambino, con quei pantaloni stretti al polpaccio e quella maglietta bianca e blu marino, ma attenzione: la matita di Luzzati scherza, perturba la riga che si fa mossa, esce dal margine (anche quello immaginario della riga stessa) e approfittando di quel movimento inserisce una riga rossa che si sovrappone, sembra danzare e saltare con Brio, che ora è più visibile che mai. Felice, ha su di sé tutta l’attenzione che un bimbo merita, è libero e disinvolto.
Una maglietta a righe non è solo una maglietta a righe: è un simbolo, un’etichetta che rende chi la indossa libero e disinvolto. Monello? Anche, soprattutto se al suo essere già zebrato si aggiunge un’altra etichetta: un tocco di arancione ai suoi capelli. Che cos’hanno in comune Cappuccetto rosso e Brio, che hanno vissuto in epoche e luoghi diversi? E che cosa condividono con tutti i bambini e le bambine (reali e illustrati) a cui la riga strizza l’occhio? Che sono visibili. Se in epoca moderna la riga ha una valenza positiva (dona sicurezza a chi la indossa, ispira simpatia), nel passato connotava negativamente chi doveva essere socialmente visibile. Buffoni, giullari, saltimbanco, folli, figli ribelli, bambini ceduti a servizio o paggi del signore del castello. Quanta infanzia nei secoli è “rigata”!
Pare saperlo molto bene Tatjana Hauptmann, che nel suo Peter Pan (LupoGuido, 2019) regala all’occhio del lettore righe in quantità. Sono a righe verticali i tessuti luridi e rattoppati delle brache dei marinai e a righe rosse le magliette sdrucite della fetida ciurma di Capitan Uncino – ché le righe dei marinai, avanzi di galera per antonomasia, erano rosse ancora prima che blu, per essere viste sempre, sia durante le manovre che in mare quando ci finivano loro malgrado. Al poveretto che carponi percorre il pennone di prua Hauptmann regala anche, oltre a brache a righe orizzontali bianche e rosse, un corsetto giallo: che ben si veda il traditore, quell’avanzo della società che anche cadesse in mare nessuno reclamerebbe. Poi c’è lui, Uncino: capelli neri montati come usavano fare i parrucconi dell’epoca, boccoloso, incipriato, camicia e scarpe alla moda di Carlo II e marsina rossa che la Hoffmann fodera sapientemente e giocosamente con un tessuto a righe di color turchese: se la riga non si può esibire, la si intrufola come per uno scherzo all’interno dell’abito, tra le maniche e le falde, nelle tasche o come fodera.
La riga – orizzontale o verticale – sottende un dualismo, è bianca e a colori, non ha dominanze; questo nel tempo ha portato a diffidare di chi indossava righe, figuriamoci di chi a righe ci è nato come la zebra, da sempre guardata con sospetto: sarà bianca e pura o nera e cupa? Da quando la scienza ha risolto questo dubbio la zebra ha cominciato a entrare tra le pagine dei libri dei bambini, a essere guardata con più simpatia o comunque con meno timore, il suo carattere esotico non è necessariamente qualcosa di cui aver paura, la sua riga non è più considerata quella di una creatura pericolosa, imperfetta, quasi diabolica. Anche Silvia Borando, nel suo nuovo albo per piccoli Zebra dalla sarta (Minibombo, 2019), gioca in modo divertente e dinamico con vestiti, fogge e colori, ridonando dignità al quadrupede bicolor. Dopo averla fatta incontrare con una sarta particolarmente bizzarra che la veste e la riveste – a quadri, pois, di pizzo, a uncinetto, in plisset – decide di lasciarle il suo manto, il più bello, e di farla andare via, in ultima pagina, sola e fiera con le sue righe.
La riga, nata da un rattoppo di uno strappo con un tessuto diverso, una pezza di tessuto colorato conservato proprio per quell’evenienza, se ripetuta diventa sequenza, ritmo, suono, movimento, fluidità, emozione e gioia. Quella gioia che si ritrova in Amici di Satomi Ichikawa, albo del 1970 (Orecchio Acerbo, 2019) in cui un testo sovente in rima accompagna un gruppetto di amici lungo una giornata di gioco, di salti alla cavallina, di capitomboli, boccacce, festa, rimbalzi sul letto e anche qualche scaramuccia: a righe, qui, è anche la pelle dei bambini sotto la doccia dopo una giornata di sole! Così la riga appartiene da sempre anche all’infanzia, a partire dal primo vestito a righe indossato dal neonato: le fasce bianche avvolte attorno ai corpi di quei piccoli putti in carne e ossa dalla personalità bivalente, angelica e satanica – proprio come quello che Daniela Iride Murgia vuole vestito in maglietta a righe leggere e ali spinose in La bambina di ghiaccio e altre fiabe di Mila Pavićević (Camelozampa, 2019).