intervista di Monica Bardi a Mariapia Veladiano
In occasione dell’uscita di “Parole di scuola” di Mariapia Veladiano per i tipi di Guanda, Monica Bardi intervista l’autrice.
Ho trovato il tuo libro molto interessante per più motivi. Partiamo dal primo. Da qualche tempo tutti si sentono in dovere di esprimere un’opinione o, peggio, di stabilire norme da una cattedra istituzionale senza una conoscenza reale della scuola o senza aver mai messo un piede in aula. Il tuo libro parte invece dal culmine di un lunga esperienza scolastica, dal banco della classe fino a quello del dirigente scolastico. Questo si sente fortemente in “Parole di scuola”. Come sei riuscita a mettere in comunicazione e a mettere a frutto tutti questi “pezzi” di esperienza scolastica?
È la mia vita. Sono parte dell’unica mia vita di donna di scuola. Quasi 39 anni da insegnante e da preside, altri 13 da studentessa. Ho sempre amato la scuola e ho avuto il privilegio di poter scegliere di insegnare, cioè poter fare proprio quello che desideravo profondamente fare. Non a tutti è concesso scegliere. Ho insegnato le parole. A scuola non si può fare tutto, in particolare oggi, un tempo particolare in cui alla scuola viene richiesta una quantità di cose del tutto improprie, dalla custodia dei figli, alle competenze per un mondo del lavoro ormai finito nella forma che conosciamo, all’accesso alla Normale o alle università estere. Si sta inseguendo il capriccio di ogni ministro che passa (e ne passano tanti!), senza un pensiero su quello che la scuola pubblica è. Il compito della scuola pubblica è rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio reale dell’uguaglianza e questo avviene attraverso la competenza linguistica che è la competenza che apre a tutte le altre. Senza la lingua si è incapaci di comprendere il mondo, di difendersi dalle trappole della demagogia, di esprimere il proprio pensiero, di pensarsi, di abbracciare l’immensa varietà del mondo, di accogliere la diversità delle vite. Per questo ho insegnato le parole. E questo è una piccola raccolta di parole che si possono dire per raccontare la scuola, oppure che proprio non si possono dire, anche se tanti pensano di sì.
Fra i personaggi che si muovono all’interno del tuo libro ha un ruolo forte l’insegnante che, come sappiamo, viene spesso esposto al pubblico ludibrio e per il quale si parla a volte di “crisi di ruolo”. È proprio di questo giorni la notizia di un blitz della finanza in un liceo classico di Torino per individuare e sanzionare assenteisti e fannulloni. Quali sono le cose da fare per rifondare il patto fiduciario dell’insegnante con la società? Dobbiamo considerarla una possibilità definitivamente perduta?
A fronte di una pessima stampa, la stima nei confronti degli insegnanti resiste eccome. L’ultimo rapporto Demos dice che il 54% degli italiani ha fiducia nella scuola. Siamo subito dopo il presidente Mattarella, che ha il 56%. I partiti sono all’8%! Quindi le famiglie percepiscono, per conoscenza diretta direi, che la scuola è importante ed è un’esperienza positiva per i loro figli. Mi pare sia accaduto questo, un poco nel libro ne parlo. La crisi ha aumentato la paura. I genitori temono che i figli abbiano una vita peggiore, meno facile, più rischiosa di quella attuale e cercano protezione. Non hanno fiducia nel futuro e allora chiedono alla scuola di tutto. Che fornisca le lingue, le competenze informatiche, che risultati siano eccellenti, altrimenti le università non consentono l’accesso ai figli. Una serie infinita di protezioni. E la politica segue in modo disordinato queste richieste. Usa la scuola in modo demagogico. In realtà forse l’unica protezione che possiamo davvero offrire ai figli è un’educazione capace di metterli in grado di sentire il proprio valore, così che nessun tracollo, nessuna delusione li trovi inermi, li distrugga. Quando leggo sui quotidiani che un ragazzo si uccide per un voto negativo o per un rimprovero non posso davvero credere che quello sia l’unico motivo. Può essere l’ultimo di una serie di colpi alla propria autostima. Un ulteriore insopportabile aggravio di sfiducia. C’è dietro una fragilità, loro e nostra di adulti. Senza volere noi adulti attraverso una protezione eccessiva diciamo ai nostri figli che non crediamo in loro e nella loro capacità di rendere il mondo migliore di quanto noi abbiamo saputo fare. Noi adulti siamo oggi piuttosto smarriti e abbiamo paura.
Come in altri tuoi libri, il lettore può apprezzare in “Parole di scuola” la limpidezza e la precisione del tuo linguaggio. A un certo punto tu offri anche un saggio di espressioni da evitare e altre da usare nella quotidianità del lavoro scolastico. Su questo tema sarebbe il caso, secondo te, di lavorare ancora, anche in modo collegiale o attraverso seminari formativi di aggiornamento per un linguaggio politicamente corretto all’interno della scuola?
Certo! Quando si dice, anche senza cattiva intenzione, che “una classe sarebbe buona se con ci fossero Tizio e Caio”, si rivela una visione classista della scuola, escludente. Ma la scuola non deve riprodurre le ingiustizie del mondo, ha la responsabilità di ripararle. E per farlo deve accoglierlo. La classe è come il mondo, è come è. Tutti hanno il diritto di far parte della classe e della scuola e noi docenti abbiamo la responsabilità di riparare le disuguaglianze di partenza. Sono disuguaglianze sempre più gravi, ce lo dicono le statistiche. Disuguaglianze culturali, economiche, di cura e accudimento, di spazio dove studiare, di accesso alle biblioteche e a internet. La crisi economica ci ha allontanati e si parte da posizioni talmente diverse che se qualcuno non le ripara si va verso forme di schiavitù e prima o poi di ribellione, di conflitto sociale. La scuola pubblica ha il bellissimo compito di preparare la convivenza per il mondo che i ragazzi abiteranno.
La tua posizione emerge in modo netto nel libro, così come anche in una raccolta di saggi a cura di Simone Giusti intitolato “La scuola è politica” e appena pubblicato da Effequ. Occorre essere fermi, prendere posizione, dichiarare “dove si vuole stare”, per opporsi anche al modello aziendale della scuola e alle spinte violente verso una mancata integrazione. Quali sono gli antidoti politici da mettere in campo a tuo parere?
La politica dovrebbe rispettare la complessità della scuola e smettere di sovrapporre decisioni a decisioni che non permettono una serena verifica di quel che si fa. Poi, soprattutto, credo che a livello amministrativo centrale, ma soprattutto periferico (Uffici scolastici regionali e territoriali – le province per essere chiari) sia necessario che i ruoli di responsabilità siano affidati a persone di scuola, che, ancora una volta, possano rispettare la delicata specificità di questo servizio pubblico. Il fatto che per questi ruoli si richieda come requisito principale la laurea in giurisprudenza rivela una visione di scuola puramente amministrativa. L’idea è che sia necessario soprattutto scrivere circolari e governare il contenzioso. E’ vero che il contenzioso è in aumento (ricorsi contro gli esiti scolastici, denunce a docenti e così via), ma la scuola è il luogo delle relazioni e il contenzioso a scuola non parte nemmeno se rimane aperto il dialogo. Certo, questo richiede tempo, e qui abbiamo un altro problema della scuola attuale, ovvero la eccessiva burocrazia da cui è oberata. Presidi e docenti spesso devono sacrificare il dialogo a una serie infinita di adempimenti. Un errore.
Uno dei nodi centrali del testo è quello della paura: paura della diversità, dell’inclusione, della mescolanza; strategia politica della paura. E anche la paura degli adulti che costituisce un limite per la libertà e l’esperienza dei ragazzi. E poi c’è quella paura “non nemica” di cui parli nel capitolo “Paura (ancora)” e che è lo spirito critico, la capacità di insinuare un dubbio, di non aderire, di opporsi alle idee ricevute del mondo. Potresti approfondire questo concetto?
La paura è un sentimento normale nell’uomo. Deriva dalla sua fragilità, dalla oggettiva consapevolezza del limite che accompagna le nostre vite. E’ un sentimento che ci aiuta a sentirci vicini, se non diventa dominante. Oggi la paura sembra a volte essere uno strumento che il potere politico utilizza per raccogliere consenso. Se si ha paura si è meno lucidi, si risponde ai problemi in modo meno riflessivo. Per cui un buon governo lavora per diminuire la paura, mai per aumentarla. L’annuncio del pericolo e la sua enfatizzazione aumentano la paura. E scatta il desiderio di sicurezza purchessia. Anche a costo di cedere una parte della propria libertà personale. Quindi più controlli, più telecamere, porti chiusi alla nostra comune umanità e così via. Oggi il fenomeno è studiato ed è chiaro: è aumentata la percezione del pericolo anche laddove c’è l’evidenza che il pericolo è diminuito. Ad esempio più del 60% degli italiani ritiene che siano aumentati i reati, che invece sono in diminuzione dal 2015. L’ultimo anno ha registrato una diminuzione di più del 40%. Allora come si fa? Ecco. Da soli la paura fa molta più paura, insieme la paura fa meno paura. Il vero presidio della sicurezza avviene quando aumenta la fiducia gli uni negli altri. Quando ci si conosce. La scuola come laboratorio di convivenza è il luogo in cui si sperimenta che insieme se ci si conosce, si può vivere bene. E del resto la domanda è: quale società vogliamo favorire per i nostri figli? Una in cui la convivenza assicuri la pace sociale, è evidente che non vogliamo una società conflittuale e violenta.
Pur non trascurando nessun aspetto di una realtà scolastica vacillante e minacciata, in “Parole di scuola” si respira comunque un’aria di speranza, se non di ottimismo, verso le sorti di questa istituzione. È così? E, in caso affermativo, su quali presupposti si fonda tale speranza?
Sulla straordinaria capacità di essere nuovi che i ragazzi hanno. Io credo che sapranno fare meglio di noi.