Il mondo è un simbolo
di Corrado Bologna
BESTIARI TARDOANTICHI E MEDIEVALI
I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana
a cura di Francesco Zambon
pp. XCIII+2449, € 50,
Bompiani, Milano 2019
Nello splendido bestiario illustrato fra XII e XIII secolo, oggi a Aberdeen, in Inghilterra, Adamo, seduto con eleganza su un trono regale, con la mano destra benedicente impone il nome agli animali, cogliendo e manifestando così la loro natura profonda: nomen est omen, dicevano gli etimologisti, “il nome contiene il destino”. La sua posa, il suo gesto sono gli stessi, solenni, che in un foglio precedente del manoscritto il miniaturista ha assegnato al Creatore. Pochi anni prima il grande maestro parigino Ugo di San Vittore ribadiva su un alto piano teologico che “il primo uomo ha ricevuto una conoscenza perfetta di tutte le cose visibili che sono state create insieme all’uomo e per l’uomo”: lo ricorda Francesco Zambon nell’importante introduzione ai Bestiari tardoantichi e medievali, il monumento testuale più completo mai progettato, non solo in Italia, in questo campo, in cui egli è fra i nostri maggiori specialisti. Il primo uomo, fatto a somiglianza del Creatore, “ri-crea” dunque la natura nominando e così classificando tutte le creature, a lui soggette per volere divino. La Bibbia e i suoi commentatori ripetono per secoli questo principio secondo cui c’è solidarietà fra conoscenza e dominio, gnoseologia e tassonomia, e il visibile fa cenno all’invisibile, giacché la natura è un libro scritto dalla mano di Dio. Dopo la cacciata dal Paradiso sarà Noè a salvare dal Diluvio gli animali, insieme all’uomo, nella sua Arca, traghettandoli nel tempo nuovo. Il “secondo Adamo”, Cristo, giungerà infine a redimere il mondo dal peccato del primo uomo, e così a restaurare e rinnovare la nomenclatura adamitica.
Zambon spiega nitidamente come il bestiario di Cristo raccolga nel segno dell’allegoria intorno al Redentore tutti gli animali con i loro nomi: in questo modo, “divenendone il significato ultimo, li restituisce al loro ordine smarrito”. Sulla base di questi presupposti teologici, fondamentali per comprendere il senso dei “libri naturali” della tarda Antichità e del Medio Evo, “tutte le realtà materiali sono immagini o specchi delle realtà spirituali e divine”: per dirla con il grande storico dell’arte medioevale Émile Mâle, tutto si lega all’idea che “il mondo è un simbolo”. Credo che il più grande allegorista moderno, il Baudelaire delle Fleurs du mal, in liriche come L’albatros (“Le poète est semblable au prince des nuées, / (…) / ses ailes de géant l’empêchent de marcher”), Correspondances (“La nature est un temple où de vivants piliers / laissent parfois sortir de confuses paroles”), Le Cygne (“tout pour moi devient allégorie”), abbia colto per l’ultima volta il senso radicale delle connessioni fra segni e significati, fra parole e cose, che si è stratificato nella tradizione dei “libri naturali” del Medio Evo, filtrando sottilmente nella modernità.
La lingua che Adamo parla, prima di tutto con Dio, è ovviamente l’ebraico, lingua sacra e sacralizzante: anche Dante lo ribadirà all’inizio del De vulgari eloquentia, sottolineando come la capacità di parola sia stata concessa dal Creatore “solo all’uomo, e non agli angeli e alle bestie”, perché l’uomo soltanto è “animale civile”, e attraverso il linguaggio a sua volta può creare comunità con i suoi simili. Nominare e ordinare la comunità umana, la natura, l’universo intero, organizzandoli in categorie e in sistemi tassonomici, è dunque l’impresa che Dio affida all’uomo, secondo la Bibbia e quindi per la teologia antica e medioevale. Quegli straordinari “libri naturali” impregnati di allegorismo e di ermeneutica biblica che usiamo chiamare bestiari, erbari, lapidari, non hanno per scopo, rileva Zambon, “né lo studio scientifico della natura né il piacere fine a se stesso del meraviglioso e del fantastico, ma unicamente la raccolta di informazioni naturalistiche – zoologiche nel caso dei bestiari – atte a illustrare allusioni o similitudini o metafore oscure della sacra Scrittura”.
La sterminata massa di materiali allegorici presentata da Zambon, sempre con il testo a fronte e con altissimo respiro di metodo e di interpretazione, permette di ripercorrere in un solo volume più di mille anni di tradizione dei bestiari scaturiti dal capostipite Physiólogos, composto ad Alessandria nel II secolo dopo Cristo, volto e arricchito in latino e poi nei volgari di tutt’Europa (occitano, anche nella variante valdese; francese; italiano; anglosassone; medio inglese; tedesco antico; islandese), e perfino nelle culture etiopica e russa.
Di fatto Zambon e i suoi collaboratori (fra di essi un ruolo speciale, anche in sede di innovazione editoriale, va riconosciuto a Roberta Capelli) attraversano e fotografano una galassia mobile e articolatissima, in cui individuano costellazioni e sistemi solari, pianeti, satelliti, stelle comete, tutti in relazione fra loro, e tutti illuminati dal principio comune di una “universale corrispondenza simbolica”. L’alto e il basso si richiamano, le parole e le immagini si riflettono in perfetta reciprocità, e la physiología diviene un’“interpretazione simbolica del cosmo o dei miti”, che non a caso è accompagnata, nei manoscritti dei bestiari, da magnifici corredi di immagini miniate.
“Una lettera non esiste se non è dipinta”, dirà a metà del Duecento il francese Richard de Fournival nel bellissimo Bestiario d’amore, puntualizzando che “questo scritto tratta una materia che richiede immagini”. E allora spedisce alla sua amata, arricchendolo con miniature perdute nell’originale, ma di cui la tradizione manoscritta ci conserva la meraviglia, un libro in cui ogni gesto legato al mondo della natura animale corrisponde a un’azione sul piano del discorso erotico: “Per esempio ‘prendere’ può essere riferito sia alla cattura di un animale sia alla conquista amorosa, ‘cantare’ sia alla voce di un uccello sia al canto poetico”. Perfino la natura delle fiere selvagge è comparata a quella dell’amore, in una mirabile mise en abyme della scelta di astenersi dal comporre poesia: “se il lupo vede l’uomo per primo, questi perde la voce, tanto che non può dire una parola”, e allo stesso modo il poeta innamorato è costretto a rinunciare al canto, e deve raccontare in prosa.
Gli exempla spirituali a cui le innumerevoli trasformazioni dei bestiari allegorici danno vita sono sagacemente sfruttati dai moralisti e dai predicatori: così nel tardo-duecentesco Libro della natura degli animali, che deriva da Richard de Fournival ed è composto fra Pisa e Lucca, l’antica storia della formica solerte e avara lavoratrice, già canonizzata in una lunghissima vicenda che va da Esopo a La Fontaine, diventa un modello buono per qualche omelia: “La formica è uno picciolo vermecello da quale li homini puono imprendere verace exemplo; ché ella si percaccia la stae quello unde possa vivere da verno (…) Solliciti devemo essere in questa vita in tutti boni facti”.
La millenaria vicenda della forma-bestiario, vera e propria struttura ermeneutica del mondo, si esaurisce con la fine del XIII secolo. Ma il tempo nostro, come dicevo, si nutre ancora di quell’antichissimo allegorismo, capace di metamorfosi tanto quanto le figure animali che infinitamente descrive e riscrive. Nella pagina finale della sua Introduzione Zambon, a cui dobbiamo anche notevolissime ricerche sulla letteratura contemporanea, non dimentica “la tigre sfolgorante nelle foreste della notte di William Blake”, “l’enorme insetto immondo della Metamorfosi di Kafka” (che io penso scaturito da una lettura delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij), “l’inesistente unicorno di Rilke che accede all’essere solo perché è stato amato”, “l’eroica anguilla di Montale che cerca la vita nella desolazione e sa che tutto incomincia quando tutto sembra decomporsi e morire”.
Riemerge allora nella memoria, estrema e ricapitolativa, una delle innumerevoli tigri di Borges (nella Storia della notte), la cui luce gialla era, per lo scrittore ormai cieco, l’ultimo bagliore di luminosità nella tenebra: “Andava e veniva, delicata e fatale, carica di infinita energia, dall’altro lato delle salde sbarre e tutti la guardavamo. Era la tigre di quel mattino, a Palermo, e la tigre dell’Oriente e la tigre di Blake e di Hugo e di Shere Khan, e le tigri che furono e che saranno e insieme la tigre archetipa, poiché l’individuo, nel suo caso, è tutta la specie. Pensammo che era sanguinaria e bella. Norah, una bambina, disse: È fatta per l’amore”.
corrado.bologna@sns.it
C. Bologna insegna letterature romanze medievali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa