L’amicizia tra James Joyce ed Ezra Pound | Segnali

La qualità dell’affetto ha luogo nella mente

di Giuliana Ferreccio

Se Virginia Woolf sostenne che nel “dicembre 1910 il carattere umano cambiò”, a quella fatidica data occorrerebbe aggiungere il 1913. Nel 1913 Ezra Pound lavorava come segretario per William Butler Yeats, imparando da lui e spingendo a sua volta il grande poeta irlandese verso nuovi esiti; stava reiventando la poesia cinese e il teatro NÕ giapponese, stava ultimando l’antologia Des Imagistes, i rappresentanti del movimento imagista da lui fondato a Londra poco prima, scoprendo il genio poetico di Hilda Doolittle. Yeats gli suggerì di interpellare anche un giovane e sconosciuto scrittore irlandese al quale Pound scrisse offrendogli il suo aiuto per trovare canali di pubblicazione nelle riviste d’avanguardia di cui era corrispondente. Nei primi scambi che seguirono Joyce mandò a Pound, oltre alla sua poesia, anche Dubliners, che non era mai riuscito a pubblicare a causa di editori poco aperti alle novità, e un capitolo di A Portrait of the Artist as a Young Man. Iniziò così una lunga corrispondenza (Ezra Pound, Lettere a James Joyce, introduzione di Forrest Read, prefazione di Enrico Terrinoni, trad. dall’inglese di Antonio Bibbò, pp. 474, € 45, il Saggiatore, Milano 2019) e un’amicizia durevole, ma soprattutto iniziò la pubblicazione delle opere di Joyce, da Dubliners (1914), ai primi capitoli di Ulysses (1925), che Pound riuscì, faticosamente, a far pubblicare su “The Little Review”, con la censura e le minacce di chiusura sempre in agguato. Senza il suo intervento, non avremmo avuto il romanzo odissiaco di Joyce né, in seguito, The Waste Land di Eliot, che Pound rimaneggiò con la sua “operazione cesarea” nel 1922. Joyce stesso lo riconobbe più avanti: se non fosse stato per gli sforzi di Pound “Io sarei rimasto probabilmente quello scribacchino sconosciuto che lui scoprì”.  Lo scambio epistolare di questi primi anni ci mostra, attraverso varie traversie, la nascita del romanzo moderno, ma le lettere testimoniano soprattutto la grande amicizia e il debito di Joyce verso Pound.

Storia concentrata dell’avanguardia letteraria del novecento, queste lettere offrono un quadro dinamico e vissuto di quella storia, nello stile “parlato” ed esuberante di Pound e in quello asciutto e ironico di Joyce. Il quadro è arricchito dai commenti puntuali e dalle informazioni sul contesto letterario o storico forniti dal curatore americano. Benché il testo risalga al 1969, l’epoca in cui si era affermata “l’era di Pound”, esso non ha perso nulla del suo originario valore informativo e interpretativo. Tradotto per la prima volta nello stesso anno dal compianto americanista Ruggero Bianchi, nella nuova, ottima, traduzione italiana il testo segue fedelmente l’originale, con una minima variante: nel sommario manca la menzione dei saggi poundiani, scelti dal curatore con meticolosa attenzione per accompagnare le lettere.

Le lettere del 1919-1920 e 1920-1924 segnano uno spartiacque, tra la fase iniziale del modernismo e il suo pieno sviluppo, che porta all’annus mirabilis del 1922 con la pubblicazione sia di Ulysses che di The Waste Land. A Londra, Pound perde la sua cerchia di seguaci, si è creato troppi nemici e la Londra del dopoguerra non gli perdona i suoi sarcastici attacchi alla “moribonda” poesia inglese. D’altronde, lui stesso non riesce a ritrovare quel clima di scoperta e di innovazione che aveva alimentato i suoi energici entusiasmi negli anni della guerra. Come Joyce, anche Pound vive un periodo di incertezza rispetto alla propria opera: completato il Mauberley (1920), il suo amaro e nostalgico addio a Londra, procede nella stesura dei Cantos, che rivede in continuazione, finchè nel 1922 troverà un punto di partenza e una struttura, sempre provvisoria, esattamente nella figura di Ulisse. Gli incroci fra Ulysses, The Waste Land e gli interventi critici di Pound costituiscono un momento di creatività artistica ineguagliabile. Negli spostamenti tra Londra e Parigi, le lettere del loro incontro a Sirmione ci offrono, con esilaranti dettagli, aspetti opposti dei loro caratteri, nonché il clima storico dell’Italia del dopoguerra.

Dopo averlo incoraggiato a trasferirsi a Parigi, Pound aiuta l’amico a trovar casa e i contatti necessari per scovare un editore. In una di queste occasioni, Joyce incontrò Sylvia Beach, che avrebbe a breve pubblicato Ulysses. A Parigi, inoltre, Pound andava scoprendo, recensendo, incoraggiando scultori e musicisti, come Brancusi e Antheil, si entusiasmava per il Dada, diventando amico di Picabia, partecipava a esperimenti foto-filmici con Man Ray, contribuiva al Ballet méchanique di Fernand Léger (1923-24). Nel passaggio da Londra a Parigi, Pound inizia a occuparsi di economia, l’ossessione della sua vita. Negli scritti e nella poesia di questi anni esprime rabbia e amarezza contro la guerra e la civiltà europea che l’aveva prodotta, “una vecchia cagna con i denti marci”. La guerra, voluta da governanti corrotti, finanzieri e venditori di armi, aveva annientato gioventù e bellezza e la “pace universale non sarà mai mantenuta se non da una cospirazione di uomini intelligenti”. Pound riprende a scrivere articoli per “The New Age”, la rivista d’anteguerra di simpatie anarchiche e fabiane (non socialiste), nei cui uffici incontra un economista eccentrico, Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento corporativista del Social Credit, nelle cui idee Pound individua la vera critica al capitalismo finanziario, che caratterizzerà d’ora in avanti le sue prese di posizione. Il punto di partenza resta però sempre l’odio per la guerra, le cui cause Pound pensa ora di individuare in una valutazione sbagliata del sistema economico capitalistico e di come combatterlo. Inizia a collegare l’assetto politico capitalistico, la morale coercitiva e le idee religiose monoteiste, in una concezione sincretistica che ne vede la responsabilità nell’“usura” del linguaggio, e del linguaggio artistico. Pur non condividendo del tutto l’atteggiamento dadaistico, dei dadaisti apprezza il tentativo di sottrarre l’opera d’arte alla funzione di merce che sempre più il capitalismo andava imponendo (“to kalon nella piazza del mercato”). Con la solita folgorante intuizione anticipa il futuro proponendo di sostituire il termine opera d’arte con “atto artistico”.

Dal 1924 in poi, da quando Pound si trasferisce a Rapallo, l’amicizia non si incrina, ma i rapporti si raffreddano. A metà degli anni venti Joyce cerca il parere di Pound sul Work in Progress che diventerà Finnegans Wake, ma l’amico non lo apprezza; l’ideale del mot juste mal si adattava alle confusioni linguistiche joyciane. Gli anni trenta però sono gli anni dell’impegno politico e Pound diventa, nelle parole di Wyndham Lewis, “un sempliciotto rivoluzionario”, non esattamente in sintonia con il distacco ironico di Joyce. Pound aveva stabilito a Rapallo un centro culturale frequentato da Hemingway e altri artisti famosi, nuove sezioni dei Cantos venivano pubblicate mentre la sua vocazione di riformatore poetico continuava a fare proseliti fra giovani poeti, intellettuali, editori. Nei Cantos si era ora volto alla storia americana, cogliendone gli aspetti di cultura agraria di origine fisiocratica, ciò che lo portava pericolosamente e ingenuamente a esaltare la figura di Mussolini, paragonandolo a Jefferson. Pound assumeva posizioni politiche sempre più criticabili, sempre convinto che l’unica risposta alle crisi finanziarie stesse nell’assetto economico del “credito sociale” che ormai identificava con la politica economica di Mussolini. Nel 1939, dopo esser andato in America per parlare a Roosevelt sperando con ciò di evitare la guerra incombente, Pound si dedica soprattutto a scritti economici in italiano, secondo i quali la guerra era stata causata dalle democrazie capitaliste. Difficile dire cosa Joyce pensasse di lui a questo punto. In Finnegans Wake, Pound compare diverse volte in parodia. D’altronde Joyce non gli aveva perdonato il giudizio negativo sulle ultime sue produzioni. Il curatore ritiene che Joyce vedesse in Pound il proprio opposto, il suo più significativo e degno antagonista.

Seguire le vicende di Pound in questi anni, nei suoi strampalati rapporti con le istituzioni fasciste è impresa complessa. Rimangono i deliranti discorsi che fece a Radio Roma per convincere gli americani ad allearsi con Mussolini, così pieni di poundiane contraddizioni da risultare incomprensibili ai più, tanto che i gerarchi pensarono a un doppio gioco, mentre gli americani iniziavano a istruire la futura condanna a morte per  tradimento. In realtà, le trasmissioni sono una utopistica mescolanza di difesa dei principi della costituzione americana, teoria economica, giudizi letterari, pesante antisemitismo e ricordi personali del “ventriloquente Agitatore”. In uno di questi, James Joyce: alla memoria del 1941, traspare sia l’affetto profondo per l’amico scomparso, sia l’acume critico di un Pound che guarda al futuro. L’Ulisse viene visto come l’ultima grande espressione di quella tradizione che va da L’asino d’oro fino al Gargantua, Don Chisciotte, Bouvard et Pécuchet. Nelle parti migliori dei discorsi, fra invettive, esitazioni e incertezze, affiorano i ricordi e traspare la rievocazione del proprio passato che nei Pisan Cantos troveranno piena espressione lirica, sempre mediata dal controcanto della quotidianità, anche quella del campo di detenzione (“ieri fu impiccato Till”). Joyce ritorna, come “Jim the comedian singing:/ ‘Blarrney castle me darlin’”, dove l’elegia è tenuta a freno dal tono giocoso e l’invettiva depurata dall’urgenza delle cose ultime: “Nothing matters but the quality / of the affection- / in the end-that has carved a trace in the mind” (“in ultimo conta solo / la qualità / dell’affetto che ha luogo nella mente”).

giuliana.ferreccio@unito.it

G. Ferreccio ha insegnato letteratura inglese all’Università di Torino