L’apocalisse, la lotta di classe e l’ecosistema | Segnali

Una forza inumana e un coro morale inoffensivo?

di Giacomo Todeschini

L’emergenza climatica è un fatto. Non per nulla Greta, potendolo fare, attraversa l’oceano su uno yacht a energia solare. L’emergenza schiavitù e sterminio dei più vulnerabili è un fatto. Non per nulla molteplici organizzazioni pubbliche e private umanitarie, autorizzate a farlo, combattono “le povertà” e affermano ripetutamente il diritto di vivere dei migranti, dei profughi e di chi è privo persino di un dove stare oltre che della possibilità di parlare in prima persona. Senza dubbio si va diffondendo il terrore di una apocalisse in grado di fare piazza pulita dei poveri, dei meno poveri e magari anche dei ricchi. Sembra impossibile. Persino i più ricchi sono (forse) a rischio di estinzione (come i tapiri dalla gualdrappa, i pipistrelli frugivori di Bulmer e i grifoni del Bengala). C’è chi si scava un rifugio, chi si ritira in campagna (meglio se sopraelevata vista l’imminente debordare degli oceani) e chi sogna pianeti abitabili esclusivamente dai padroni di qualcosa e di qualcuno (Elysium, film del 2013 di Neill Blomkamp con Matt Damon e Jodie Foster). Nonostante si diffonda la buona abitudine di dividere il vetro dalla carta e dalla plastica, il mondo, si viene ripetendo, il “mondo che conoscevamo”, il nostro mondo, ossia quello di cui noi siamo i fruitori, e alcuni di noi i proprietari, è sull’orlo dell’abisso, nulla sarà più come in passato con ogni cosa e ciascuno al suo posto: il buffet e il contro-buffet, il canterano, la nonna e le ragazze ribelli, chi insegna e chi apprende, le merendine, i tatuaggi, radio Maria, i centri commerciali, i fanti e i santi, la curcuma, il sesso, la droga e il rock and roll, l’omeopatia e il vaccino trivalente, chi comanda e chi sa organizzarsi la vita, “chi vuole l’aumento, chi gioca a Sanremo, chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno, chi ama la zia, chi va a Porta Pia” (Rino Gaetano, Il cielo è sempre più blu, 1975). Finiti gli anni ottanta e i novanta, sbiadita la meraviglia per il nuovo millennio, il mille e non più mille si riaffaccia sogghignando. Non se n’era andato, dopo tutto.

Certa gente però non sembra preoccupata, non ricicla e si fa solo i fatti suoi, ammesso che non affoghi tra un barcone e l’altro o non crepi di fame in qualche angolo invisibile. I “mangiatori di ferro” del Bangladesh raccontati da Shaheen Dill-Riaz, gli adolescenti in miniera e quelli o quelle sui marciapiedi, gli schiavi addetti alla raccolta dei pomodori, i poco di buono delle periferie brasiliane, gli esuli, i profughi e quelli che scappano dai loro non luoghi per ritrovarsi segregati nei non luoghi di qualcun altro (se ci arrivano vivi), se ne infischiano del pianeta dato che il pianeta se ne infischia di loro, non si interessano dell’ecosistema visto che il sistema economico vigente ha previsto per loro (specie di scarso valore) un’estinzione più o meno rapida ma certa, né si curano più di tanto delle microplastiche che ci avvelenano poiché da tempo avvezzi a nutrirsi ai quattro angoli del globo (in Nebraska, a Osaka, a Vigevano, in Argentina, a Sezze Romano) di quanto i mercati evacuano a loro uso e consumo. Analogamente i proletari o i piccolo borghesi proletarizzati delle città del “primo mondo” e di quelli che lo seguono a ruota, a fatica pervengono a una corretta coscienza ecologica, presi come sono dalla violenza di una vita quotidiana senza respiro né sosta, alla rincorsa di autobus e metro, e dei servizi sociali, talvolta (a Roma ad esempio) travolti da ondate di spazzatura (“monnezza”), in ogni caso tormentati dall’affanno lavorativo derivante dall’elastica modernità del “part-time”: non riescono proprio a prendersi cura della “casa comune”, il mondo, forse perché non ne hanno la chiave. Sono rimasti fuori della porta.

Come i mercenari e i salariati contrassegnati come spregevolmente meschini da Cicerone e dai confessori medievali che ne sottolineavano l’amoralità evidenziandone la gretta venalità (aspiravano, quei vili, solo a farsi pagare per i lavori svolti), anche i paria che popolano numerosi il “nostro pianeta” badano solo a sopravvivere in qualche modo. La pancia non sente ragioni e non conosce morale. “Prima mangiare e poi moraleggiare” ci insegna Bertolt Brecht (“Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral” in L’opera da tre soldi, secondo coro finale).

In effetti, in un suo libro appena pubblicato (Capital et idéologie), Thomas Piketty ci ricorda che la crisi ecologica, e la distruzione del mondo “come lo conoscevamo”, o come lo conoscevano quelli che hanno potuto permettersi di conoscerlo (a differenza della mia vicina Marisa che, dal suo villaggio amiatino, provincia di Grosseto, non si è mai spinta oltre Pisa, dato che doveva fare l’orto), è incomprensibile se non si fa attenzione al sistema economico e sociale fondato sulla disuguaglanza e l’ingiustizia che ha prodotto come sua logica conseguenza la “crisi dell’ecosistema”. Sembra strano, macabro e vagamente grottesco sentir dire che questa fine del mondo, imminente, può essere un’occasione di rinascita per l’umanità, perché adesso tutti quanti sapranno che non si devono sperperare le risorse del mondo (abbondantemente scialacquate non da tutti quanti, ma piuttosto da alcuni ben precisi poteri, gruppi umani e persone, residenti in luoghi ben determinabili della terra), visto che di norma non si fa cenno all’impero di mercato che dal suo grembo feroce ha generato il riscaldamento globale, gli uragani, i ghiacciai che fondono, i migranti che affogano, gli stermini dei poveracci, e l’annullamento del valore delle persone da poco, i “perdenti” (“losers” nel fiabesco gergo della spietatezza anglo-americano). E appare di inaudita violenza, sadico, oltre che illogico, ricordare di continuo alle persone prive di qualsiasi potere che non sia quello di fare la spesa e di pagare il mutuo, di affinarsi l’ingegno video-giocando e di intrattenere relazioni sociali accuratamente virtuali (per la via dei social media, fascinoso elemento lessicale a indicare la morte della capacità e del diritto di stare insieme e lottare dei non privilegiati), la loro responsabilità nelle sorti di un mondo di cui sono, in sostanza, le vittime, compiacenti se vogliamo, ma pur sempre vittime (seppur munite di smartphone).

È pur vero che “folle di giovani” vanno in piazza per gridare ai potenti del mondo, sull’esempio di Greta, la loro rabbia per la catastrofe in arrivo. Va bene, ed è bello da vedere, siamo d’accordo. Sembra però che: 1) i potenti a cui si rivolgono non siano potenti come i gruppi multinazionali e transnazionali protagonisti del disastro e del macello degli sfruttati, dello sterminio di poveri, poverissimi, o ceti intermedi affannosamente aggrappati a una dignità ormai smarrita, 2) la retorica della “crisi dell’ecosistema” abilmente supportata dai media al servizio (talvolta inconsapevole) dei suddetti protagonisti dello sfascio offuschi e confonda la dinamica delle responsabilità reali, sicché 3) la rivendicazione, umana, di un futuro vivibile, disconnessa da un ragionare sulla macchina sociale, economica, filosofica che fabbrica a ritmo frenetico disuguaglianza, distruzione e azzeramento del significato degli animali viventi, umani e non, funziona paradossalmente da coro morale inoffensivo. Da foglia di fico (si protesta: la parola è libera, tutto andrà a posto) utile a dissimulare le vergogne urlanti di un pianeta stremato dal delirio ipercapitalista di onnipotenza. I dannati della terra e i disgraziati che annaspano nelle città del mondo possono estinguersi più o meno in pace: il loro sacrosanto diritto di rivoltarsi, la loro eventuale volontà di protesta si perdono nel fragore mediatico del conflitto intorno all’“ecosistema”. Il lamento sull’incerto futuro dei giovani derubati e vampirizzati dai vecchi cattivi, la trappola antica del conflitto generazionale, occulta come si conviene la brutalità di una lotta tra classi sociali stravinta dai più forti, più ricchi e più violenti, giovani o vecchi che siano. Tutti i cittadini del mondo, quelli giovani soprattutto, sono dunque invitati a inveire contro i “poteri” occulti (dei vecchi, dei banchieri, e di chi sa chi altro, pur che sia vago e mitologico) evocatori degli angeli del Settimo Sigillo.

 

Impuniti e tranquilli, in questo clima, al riparo da scontri che potrebbero minacciare il loro status di artefici e tecnici dell’apocalisse, i padroni e i servi di un ipercapitalismo tanto divoratore quanto irragionevole possono continuare la loro marcia verso un avvenire tenebroso, trascinandosi dietro, insieme con i già sommersi dei paesi più poveri, con gli schiavi e i sacrificati, con quelli senza il gabinetto in casa e senza speranza, anche coloro che, ritenendosi ancora salvabili e abbastanza puliti, presentabili, automuniti, giovani e con i capelli lavati di fresco, muovono alla riscossa per salvare il pianeta. All’oscuro tuttavia di quanto furibonda e vorace sia, al di là dell’inquinamento che ha provocato, la forza antiumana di un’economia che del mondo e dei suoi abitanti ha fatto una risorsa da sfruttare fino all’esaurimento finale.

todeschinigiacomo@gmail.com

G. Todeschini insegna storia medievale all’Università di Trieste

I libri

Patrick Greenfield, World’s top three asset managers oversee $300bn fossil fuel investments, “The Guardian” del 12 ottobre 2019

Thomas Piketty, Capital et idéologie, pp. 1248, €25, Seuil, Paris, 2019

Valore delle cose e valore delle persone. Dall’Antichità all’Età moderna, a cura di Massimo Vallerani, Viella, 2018

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, 2015

Joan Martínez Alier, Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, 2009

Ironeaters (film-documentario) di Shaheen Dill-Riaz, 2009

Bertolt Brecht, Die Dreigroschenoper, ed. orig. 1928, a cura di Joachim Lucchesi, Suhrkamp, 2004