intervista di Chiara D’Ippolito
Oggi pomeriggio Laura Pugno e Matteo Nucci dialogheranno a Book Pride di sirene e mitologia. Intervistiamo qui Laura Pugno, il cui romanzo “Sirene” ha segnato, ormai più di dieci anni fa, una svolta nella narrativa italiana contemporanea.
Nell’ultimo periodo sono usciti molti romanzi che riprendono e riscrivono il mito, anche per affrontare tematiche attuali, come la condizione della donna. Penso, per esempio, a Margaret Atwood, Il canto di Penelope, a La morte di Penelope di Maria Grazia Ciani, a Elena di Sparta di Loreta Minutilli e alla recentissima antologia Le Nuove Eroidi in cui alcune scrittrici italiane come Chiara Valerio, Michela Murgia e Teresa Ciabatti ripercorrono le vicende delle grandi eroine tragiche. Quale pensa sia la ragione?
Aggiungerei Cesare Sinatti, giovanissimo autore de La Splendente per Feltrinelli, che ha scritto un romanzo molto bello. Penso che vi siano molte ragioni per questi fenomeno, che è letterario ma anche editoriale. Da una parte siamo in un tempo storico in cui emerge forte la richiesta di un nuovo e diverso umanesimo, decentrato e delocalizzato, aperto a molte soggettività diverse e plurali che si pongono, tutte, come soggettività assolute e quindi relative l’un l’altra: il maschile, il femminile, il Nord e il Sud del mondo, fino agli animali e alle piante, fino a soggettività non umane. È il cambio di paradigma che la nostra epoca richiede, e che il pensiero scientifico è necessario ma non sufficiente per affrontare da solo: è essenziale che dialoghi con un nuovo pensiero umanista, che vede uomini e donne come parti, pensanti, di un tutto e non più centro di quel tutto. (Lo sappiamo già ma in qualche modo dobbiamo farlo e farlo anche con le parole e la scrittura). Un nuovo pensiero che è all’inizio e all’origine, in prosa e anche in poesia e che forse proprio per questo torna al mito perché il mito ci parla dell’origine, del nostro inizio, in un linguaggio che riconosciamo come comune.
Allo stesso tempo, proprio questo essere in comune del mito fa sì che in qualche modo, dal punto di vista editoriale, sia percepito come un modo chiaro per arrivare ai lettori, proprio perché in certa misura il lettore già sa di cosa si sta parlando, è già parte del mondo in cui l’autore gli chiede di entrare, conosce le scorciatoie, conosce le strade, è attratto di per sé Nel linguaggio della sceneggiatura, il mito è sempre high concept.
Questo, però, è un tipo di ragionamento editoriale che può anche essere pericoloso – e premetto che non mi riferisco a nessuno dei libri citati più sopra – perché la letteratura corre il rischio di non portare più il lettore dove non sa di stare andando, dove non si aspetta. Pensiamo di bagnarci nell’Oceano ai confini del mondo, e ci ritroviamo a galleggiare in una piscina. Naturalmente il rischio è maggiore lì dove il mito viene preso alla lettera, e solo interpretato e incarnato.
Quella che compie Sirene è invece un’operazione del tutto diversa: le sirene, gli esseri del mito, entrano in scena come se appartenessero al nostro mondo. Per riprendere una citazione molto amata di Benjamin, da aura diventano traccia: “nella traccia noi ci impadroniamo della cosa, nell’aura essa si impadronisce di noi”.
Per quanto riguarda lei, e il suo romanzo Sirene, possiamo dire che il mito sia stato lo strumento per addentrarsi nel luogo del selvaggio per eccellenza, il bosco, che è il luogo da cui la scrittura attinge per essere significativa?
Non lo definirei uno strumento, piuttosto un ritrovamento, una inventio – scoperta, qualcosa in cui ci imbattiamo – che in questo senso è invenzione. Qualcosa che era lì, che è sempre stato lì e deve esserci, anche quando la sua forma originaria è in rovina, come la casa abbandonata e invasa dagli alberi o le misteriose vasche di marmo, antichissime, che troviamo sull’isolotto di Krev, non a caso un’isola immaginaria in Grecia, su cui è ambientato il mio ultimo romanzo, La metà di bosco (Marsilio 2018).
Come è emersa nel suo immaginario la figura della sirena? É di qui che è partita la narrazione di Sirene, oppure è stata la narrazione che a un certo punto si è aperta a questa figura mitica? Quali temi ha permesso di toccare il mito delle sirene? Perché proprio questo mito e non altri?
Sirene è un romanzo che in qualche modo “si è scritto da solo”, in una sorta di stato di flusso. Ho scritto la prima stesura in tre giorni. Con l’esperienza ho appreso che questi processi, apparentemente spontanei, accadono invece alla fine di una lunghissima elaborazione interiore, in parte cosciente e in parte no, come se il corpo stesse già scrivendo prima che la mente arrivi a farlo. In quanto alle sirene, erano al centro di tutto sin dall’inizio: la prima scena che ho scritto, che è l’incipit del romanzo, contiene già in nuce l’ultima, le aperture di speranza toccano le promesse di distruzione.
Per quanto riguarda il tema, attraverso il corpo delle Sirene, e il loro canto o la loro voce – ultrasuono, lamento, voce vera? – passa il confine tra animale e umano, e anche tra natura e umanità, che è uno dei pensieri non ancora del tutto pensati, dei pensieri che stiamo cominciando a pensare nel nostro tempo.
Sono ritornati questi temi nelle sue opere successive?
Sì, ne La ragazza selvaggia (Marsilio ,2016) con cui ho vinto la Selezione Letterati del Premio Campiello, ma anche ne La metà di bosco (Marsilio 2018) e La caccia (Ponte alle Grazie 2012).
Da Sirene in poi, nei suo romanzi la componente femminile è sempre significativa e addensa su di sé un ruolo chiave, anche dal punto di vista simbolico. Perché?
È certamente vero, e allo stesso tempo, questa osservazione – che mi viene fatta spesso – denota a mio avviso uno sviamento di percezione che è talmente diffuso da non essere – tuttora, del tutto – a sua volta percepito, meta-percepito. Come un punto cieco della lente che c’è da talmente tanto tempo che non ne siamo più consapevoli, non lo vediamo più.
A mio avviso, infatti, i personaggi femminili dei miei romanzi sono esattamente come quelli maschili, significativi e simbolici allo stesso grado, non sono animali cresciuti in cattività o sottoposti a un condizionamento – scosse elettriche? – che faccia loro amare la paura. Se appaiono più forti, è perché siamo abituati – eppure, ancora – ad aspettarci un personaggio femminile debole, inevitabilmente co-protagonista, o al contrario compensato da una forza scontata, non conquistata, irreale. Aggiungo che per me, diversamente da quanto ho spesso letto sui miei libri, i miei personaggi femminili non sono necessariamente espressione di corpo e natura, di contro a un maschile che rappresenterebbe, come da portato storico, mente e cultura. In Quando verrai e in Antartide, rispettivamente il mio secondo e quarto romanzo, sono i personaggi femminili – la guaritrice Montserrat, Miriam Seia e la sua particolarissima “confraternita della buona notte” – a decifrare, ad aver chiaro, a leggere il mondo con lenti nuove, mentre i personaggi maschili brancolano di più. In altri romanzi è ancora diverso, i personaggi attraversano sempre confini ..
Nel suo romanzo, il corpo delle sirene suscita istinti contraddittori: di venerazione e di violenza. Il corpo della donna è quindi per lei un terreno di conflitto?
Tutti i corpi sono luoghi su cui cerca di esercitarsi il potere, come anche le menti – del resto mente e corpo sono la stessa cosa. Per le donne questo è stato storicamente più vero dato che al subire il potere che rende oggetto non si è contrapposto, se non in tempi molto recenti, l’esercizio del potere come soggetto. Ma anche il corpo maschile, non dimentichiamo, è stato da sempre oggetto di potere: guerra, violenza, addestramento, lavoro in ogni modo forzato. In tempo di pace, la visibilità di questo stato di dominio si offusca, è minore. C’è senza dubbio da porre una questione maschile: se i soggetti assoluti sono due, maschile e femminile, allora anche le differenze sono due, anche gli uomini devono pensarsi dalla propria differenza. Dalla relatività, storicità, finitezza del proprio corpo, della propria percezione, dal confine che in ogni momento ed epoca ci attraversa tra la natura – come sempre storicamente riusciamo a percepirla – e la cultura, nel senso più ampio, come segno in noi dell’umano.