Hong Kong: la storia coloniale e le proteste attuali | Segnali

L’irrinunciabile anomalia

di Niccolò Pianciola

Per più di cento giorni, l’estate di Hong Kong è stata segnata dal più grande ciclo di proteste da quando la città è passata sotto la sovranità cinese nel 1997.Milioni di persone sono scese in strada contro una proposta di legge che consentirebbe alle procure della Cina comunista di richiedere l’estradizione dalla giurisdizione di Hong Kong. Contro la misura hanno preso posizione non solo studenti e classe media ma, oltre all’avvocatura della città, anche imprenditori e l’élite tecnocratica che aveva in precedenza sempre appoggiato l’amministrazione. Il pugno duro della polizia contro i manifestanti, nonché le violenze di elementi appartenenti alla criminalità organizzata verso i quali le autorità sono state finora benevole, ha avuto l’effetto di una radicalizzazione della protesta.

La questione dell’estradizione è passata così in secondo piano, mentre i dimostranti richiedono la liberazione degli arrestati e l’istituzione di una commissione di inchiesta sull’operato della polizia (recentemente Amnesty International ha confermato le notizie di violenze e torture nei confronti di manifestanti arrestati). La rottura della fiducia tra cittadinanza, polizia e amministrazione ha riportato in primo piano la questione della democratizzazione del sistema politico. La Basic Law, la mini-costituzione della regione autonoma in vigore dal 1997, prevede esplicitamente che si arrivi all’elezione del Capo dell’esecutivo con suffragio universale. Una proposta attuativa che sostanzialmente manteneva invece invariato il controllo di Pechino aveva provocato la “rivoluzione degli ombrelli” del 2014. Allora, esponenti della società civile tra i quali il giurista Benny Tai (da poco uscito dal carcere; si veda la sua intervista sull’“Indice” 2015, n. 5) e il leader studentesco Joshua Wong (v. il suo saggio nel volume Hong Kong 20/20) avevano giocato un ruolo importante nel catalizzare le mobilitazioni. Quest’anno il montare della protesta è stato un fenomeno molto più reticolare, spinto dal sentimento di ansia diffusa per l’uniformazione al resto della Cina. Gli immigrati dal resto della Cina nel ventennio successivo all’unificazione non superano attualmente il 15 per cento della popolazione. Tuttavia, la presenza sempre più massiccia di turisti e commercianti da oltrefrontiera, la crescente importanza del mandarino rispetto al cantonese, la competizione per posti di lavoro e case, in un mercato immobiliare tra i più cari al mondo (in una società in cui quasi un quinto della popolazione vive sotto la soglia ufficiale di povertà) contribuiscono ad acuire la crescente frustrazione per un sistema politico che non dà agli elettori neppure la speranza di poter contrastare i processi socio-economici in corso (gli studi di Leo F. Goodstadt sono la miglior guida alle politiche sociali ed economiche nella regione autonoma).

La percezione che, al contrario di quanto stabilito dalla Basic Law, Pechino spingesse verso un aumento del controllo autoritario sulla città è di lunga data, così come le reazioni della società civile. La proposta di una legge sulla sicurezza nazionale nel 2003 e quella di un curriculum scolastico più in tono con il nazionalismo ufficiale nel 2012 avevano portato ad ampie proteste che erano riuscite a fermare entrambi i provvedimenti. Paradossalmente, maggiore è la spinta dall’alto verso il rafforzamento di un’identità nazionale cinese comune, maggiore è la coscienza, soprattutto delle nuove generazioni, di appartenere a una comunità distinta dalla più grande nazione cinese, e definita da valori quali lo stato di diritto e la libertà di espressione. Come in ogni costruzione identitaria, questa coscienza si basa su una memoria selettiva dell’esperienza coloniale. Come spiega Carol Jones nel volume curato da Gary Luk, il rispetto della rule of law sotto i britannici è stato tutt’altro che costante. La presenza di una legislazione coloniale emergenziale che sospende i diritti fondamentali, un’opzione ancor’oggi presente nella regione autonoma, fu utilizzata dai britannici in più occasioni, specialmente dopo ondate di proteste e disordini negli anni cinquanta e sessanta, quando decine di migliaia di persone furono imprigionate e deportate senza processo. In più, norme razziste come la proibizione ai cinesi di risiedere nella zona più prestigiosa della città rimasero in vigore per decenni. La governance coloniale fu in seguito riformata. Come spiegano John M. Carroll e Mark Hampton nei loro studi, anche a causa dello shock dei disordini filocomunisti del 1967, dagli anni settanta in poi il governo creò un welfare state, espanse l’istruzione pubblica, riformò un corpo di polizia profondamente corrotto, e infine introdusse parziali riforme di autogoverno quando il passaggio alla Cina era stato già deciso (con la Dichiarazione congiunta del 1984, senza alcuna consultazione popolare).

Per molti, la transizione del 1997 non è stata in effetti una decolonizzazione, ma il passaggio da una condizione coloniale ad un’altra (v. il saggio di Stephen Vines nell’antologia Hong Kong 20/20). Secondo il sociologo Law Wing Sang, una reale decolonizzazione della società hongkonghese è stata resa difficile dal coinvolgimento sempre più forte, nella gestione della colonia britannica, dell’élite imprenditoriale locale nel secondo dopoguerra. Questa stessa élite avrebbe trasferito la propria fedeltà ai nuovi signori a Pechino, ma la sua egemonia culturale e sociale nella (neo) colonia sarebbe caratterizzata da una forte continuità. Il paradosso della situazione postcoloniale di Hong Kong è che, mentre negli imperi coloniali europeo-occidentali lo stato di diritto era praticato esclusivamente nelle metropoli, Hong Kong oggi ne sarebbe la versione speculare: la città è un’enclave di stato di diritto all’interno di una dittatura in cui lo stato di eccezione è la regola. Pechino ha dimostrato le proprie capacità e prontezza ad attuare politiche di repressione estrema contro intere popolazioni, come in Tibet e Xinjiang. L’eventualità di una svolta autoritaria e centralizzatrice a Hong Kong è tema di discussione quotidiana in città. Anche se il Partito comunista cinese non è ufficialmente presente a Hong Kong, di fatto controlla una fitta rete di enti nella regione autonoma per influenzare l’opinione pubblica e finanziare le proprie attività fin dalla lotta contro il Guomindang di Chiang Kai-shek (il libro di Christine Loh analizza la continuità delle politiche del “fronte unito” comunista prima e dopo il 1997). Tuttavia, categorie come quella di colonialismo non aiutano ad andare al cuore della specificità del rapporto tra Hong Kong e Pechino. Se si guarda alle relazioni economiche tra Londra, Hong Kong e Pechino dal 1949 in poi, lo spartiacque del 1997 risulta meno decisivo. Come spiega sempre Goodstadt, durante l’embargo americano contro la Cina comunista negli anni cinquanta e sessanta, con la conseguente impossibilità da parte di Pechino di usare dollari Usa per pagare il proprio interscambio con l’estero, il sistema bancario di Hong Kong divenne il tramite con cui l’economia della Cina popolare rimase collegata con il mercato globale fino alle riforme di Deng, e oltre. Pechino ha poi tentato di creare altri centri finanziari a Shanghai e Shenzhen che potessero in futuro sostituirsi all’ex-colonia.

Questo risultato sembra ancora lontano dal compiersi, soprattutto per l’assenza di stato di diritto e per il controllo governativo sull’informazione. È vero che tra 1997 ed oggi, il peso del Pil di Hong Kong sul totale del Pil cinese è diminuito da quasi il 20 per cento a meno del 3 per cento. Se si guardano però gli investimenti diretti esteri in Cina, ben metà del totale nel periodo 2000-2015 è passato per Hong Kong (negli ultimi due anni la percentuale è addirittura aumentata). Molti di questi investimenti sono operati da società cinesi registrate all’estero per beneficiare degli incentivi per gli investitori stranieri. Rimane tuttavia  vero che Hong Kong è ancora, come è stata per gran parte del XX secolo, la porta finanziaria della Cina verso il mercato globale. Una circostanza che rende estremamente alto il prezzo che Pechino dovrebbe pagare per una eventuale repressione violenta del movimento democratico.

niccolopianciola@ln.edu.hk

N. Pianciola insegna storia alla Lingnan University di Hong Kong

I libri

Leo F. Goodstadt, A City Mismanaged: Hong Kong’s Struggle for Survival, Hong Kong University Press, 2018

Christine Loh, Underground Front: The Chinese Communist Party in Hong Kong, Hong Kong University Press, 2018

Gary Chi-hung Luk (ed.), From a British to a Chinese Colony? Hong Kong before and after the 1997 Handover, Institute of East Asian Studies, University of California, 2017

PEN Hong Kong (ed.), Hong Kong 20/20: Reflections on a Borrowed Place, Blacksmith Books, 2017

Mark Hampton, Hong Kong and British Culture 1945-97, Manchester University Press, 2015

Law Wing Sang, Collaborative Colonial Power: The Making of the Hong Kong Chinese, Hong Kong University Press, 2009

John M. Carroll, A Concise History of Hong Kong, Rowman & Littlefield, 2007